Il brigantaggio preunitario

Nel Meridione dell’Italia (Regno di Napoli, dal 1815 Regno delle Due Sicilie), il brigantaggio si è sviluppato, nei tempi moderni, in tre periodi: il primo, nel XVI e XVIII secolo, durante l’occupazione spagnola; il secondo, durante l’occupazione francese, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, sia per motivazioni politiche, legittimiste, che sociali; il terzo  dopo l’Unità d’Italia, anche in questo caso per motivazioni politiche e sociali.

Dal Cinquecento al Settecento, il fenomeno dei scorritori di campagna” e dei ladri di cavalli era abbastanza diffuso in ampie zone del Regno di Napoli, tanto che contro di loro combattevano i “militi” assoldati dai baroni locali ed i “frati giurati, addetti alla vigilanza dei campi, che erano autorizzati, con una “patente”, a portare le armi per debellare la “gente di mala vita”. 

Il brigantaggio ha avuto una nuova e ampia diffusione nel Meridione durante l’occupazione dei francesi, i quali, tra la fine del 1798 ed i primi mesi del 1799, repressero duramente la resistenza della popolazione, saccheggiando paesi e villaggi. Peraltro, in tutti gli abitati, per  guidare la rivolta antifrancese, la popolazione aveva eletto un Capo massa. 

L’arrivo dei francesi favorì la rivoluzione filo-giacobina, che portò nel 1799 alla nascita della Repubblica Napoletana (Repubblica Partenopea), guidata dalla borghesia liberale, ma non voluta dal “popolino” dei “lazzeri”, i quali, rimasti fedele alla monarchia dei Borbone, lottarono per il ritorno del Re Ferdinando IV, fuggito in Sicilia, e sostenuto anche dal clero.

In particolare, nelle regioni meridionali (sopratutto in Calabria) furono molto attive le “bande sanfediste” (appartenenti allEsercito della Santa Fede), promosse e guidate dal nobile Fabrizio Ruffo, Principe di Calabria, diventato Cardinale nel 1791, che  dopo aver seguito il re in Sicilia ritornò in Calabria, dove organizzò una armata popolare e “legittimista”, per restaurare la monarchia dei Borbone, trovando il sostegno della popolazione e del clero locale.

La resistenza “popolare” ai francesi era sostenuta anche da ragioni economiche e sociali, dato che alla popolazione erano state imposte le “contribuzioni” (tasse), e continuò durante tutto il periodo dell’occupazione, nonostante Giuseppe Bonaparte avesse abolito la feudalità (agosto 1806). Alimentò inoltre il fenomeno del brigantaggio, che durante il regno di Gioacchino Murat (1809-1810), si diffuse in particolare in Abruzzo, in Basilicata ed in Calabria, dove le bande assunsero il controllo di ampi settori di territorio, con il favore della popolazione.

Murat incaricò quindi il generale Carlo Antonio Manhes, suo aiutante di campo, di reprimere il brigantaggio in Abruzzo. La repressione militare fu molto dura, anzi spietata, tanto che impressionò l’opinione pubblica locale ed ancora oggi c’è il ricordo di quei tragici fatti. Per fare terra bruciata intorno ai briganti, si arrestarono i loro parenti fino al terzo grado e furono confiscati i loro beni; fu vietato agli abitanti dei paesi e dei villaggi nelle zone infestate dalle bande dei briganti, di portare fuori dell’abitato viveri in quantità superiore alla razione giornaliera; fu imposto di pascolare  le greggi di pecore e di capre e le mandrie di mucche e di cavalli in luoghi stabiliti, posti sotto la continua sorveglianza dei reparti militari. Ai trasgressori era comminata la pena di morte, tramite la fucilazione sul posto. Vari centri abitati furono posti sotto assedio. La pena di morte fu stabilita anche per i favoreggiatori ed i ricettatori dei briganti. Pertanto, costoro, privati dei mezzi di sostentamento, furono costretti ad uscire dai loro rifugi, nelle grotte sui monti e nelle foreste, ed a scontrarsi in campo aperto con le truppe regolari, che facilmente le sbaragliarono. Così, in pochi mesi  il brigantaggio fu debellato in Abruzzo. 

Avendo adempiuto al suo compito, il 5 giugno 1810 il generale Manhes fu inviato in Calabria per distruggere le bande locali, che erano sostenute, anche finanziariamente, dalla monarchia dei Borboni, riparati in Sicilia. Comunque, anche in Calabria in un anno il brigantaggio fu sradicato ed i superstiti delle bande ripararono in Sicilia. Comunque, dopo la restaurazione monarchica del 1815, i Borboni  perseguitarono i briganti, mancando alle promesse fatte. 

Il brigantaggio post-unitario

Il 12 novembre 1860, durante la “spedizione dei Mille”, guidata da Giuseppe Garibaldi,  il re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, con la moglie Maria Sofia, la Corte e circa 13.000 soldati, si rifugiò nella fortezza di Gaeta, che resistette all’assedio per ben 102 giorni, fino al 14 febbraio 1861. Quindi, il re, con la moglie ed il suo seguito, riparò nello Stato Pontificio, salpando con il piroscafo francese La Mouette e  sbarcando  nel porto di Civitavecchia per poi raggiungere Roma, dove chiese ospitalità al Papa.

Con la caduta del Regno delle Due Sicilie e la sua annessione al Regno di Sardegna, con il plebiscito del 21 ottobre 1860, furono applicate nel Meridione le leggi sabaude, compresa quella sulla leva militare obbligatoria. Pertanto, molto ampia fu la renitenza alla leva e la diserzione da parte dei “coscritti”, che in alcune province raggiunse una percentuale di oltre la metà dei chiamati alle armi, dato che la leva obbligatoria comportava seri problemi nella conduzione della agricoltura, togliendo “braccia valide” per il lavoro nei campi e per la pastorizia. Pertanto, nel mese di novembre 1860, fu imposta la legge marziale nelle province nelle quali la renitenza era più elevata.

Come nel periodo dell’occupazione francese di inizio Ottocento, si diffuse rapidamente la protesta contro quella che fu considerata una “occupazione piemontese” invece che una “unificazione nazionale”. Riprese quindi vigore il fenomeno del brigantaggio, soprattutto in Abruzzo per la vicinanza allo Stato Pontificio, dove erano rifugiati i Borbone, che lo sostenevano economicamente, attraverso degli “emissari”, che sobillavano la popolazione a ribellarsi ed a lottare per la restaurazione della monarchia borbonica. Le prime “bande“ dei cosiddetti briganti hanno quindi una chiara connotazione legittimista e si formano in seguito al Bando di Isernia del 23 ottobre 1860 emanato dal Re Francesco II, subito dopo il plebiscito per votare l’unificazione al Regno di Sardegna (21 ottobre). Successivamente, le bande si rafforzano sia con l’adesione degli sbandati dell’esercito borbonico (soprattutto soldati e sottufficiali, dato che molti ufficiali avevano aderito al nuovo esercito Italiano), che ritornati nei loro paesi e villaggi e ripresa la loro condizione di braccianti e di pastori, non avevano trovato mezzi adeguati di sussistenza economica, sia con l’adesione di criminali comuni. 

In particolare, all’incremento del brigantaggio influì anche la delusione dei contadini che avevano confidato nella riforma agraria, ma che non riuscirono ad acquistare le terre demaniali messe all’asta perché non disponevano dei necessari soldi in contanti, per cui le terre furono acquistate dai signorotti locali, i quali, così, incrementarono le loro proprietà. Lo stesso avvenne anche per i terreni costituenti Beni Ecclesiastici, confiscati agli Ordini religiosi, che erano goduti dai contadini, i quali pagavano un affitto molto basso, e che quindi non li poterono più utilizzare per il sostentamento della propria famiglia. In questo modo, si aggravò notevolmente la situazione economica della popolazione.

Peraltro, in seguito alla confisca dei Beni Ecclesiastici, anche la Chiesa parteggiò con i Borboni, emanando “istruzioni” della Sacra Penitenzieria in base alle quali non si dovevano rispettare le leggi sabaude.  

Per la repressione del brigantaggio, considerato nell’immaginario popolare italiano come una “idra a sette teste”, furono inviate nelle province interessate dal fenomeno ingenti truppe. In particolare, in Abruzzo fu inviato il generale Raffaele Cadorna, comandante della 17a Divisione, che partì da Napoli (dove aveva sede il VI Corpo d’Armata) il 13 giugno 1861 ed arrivò a Chieti il 20 giugno, dove assunse il comando della locale Divisione Militare Territoriale. In seguito fu sostituito dal generale Pallavicini.

Nel luglio 1861 fu nominato Luogotenente del Regno e Comandante militare per l’Italia Meridionale il generale Enrico Cialdini, che diresse la repressione del brigantaggio fino all’abolizione della Luogotenenza, nell’agosto 1862. Contemporaneamente si doveva controllare l’attività politica filo borbonica, svolta dai Comitati  presenti in tutte le città. Al riguardo, nell’estate 1861, il  Comitato filo borbonico di Napoli, sfruttando la situazione favorevole conseguente alla crisi economica, organizzò una manifestazione pubblica. Iniziative analoghe si svolsero in una trentina di Comuni della Provincia di Avellino. 

Dopo l’attenuazione del fenomeno del brigantaggio nell’inverno 1861-1862, a causa delle condizioni climatiche, il brigantaggio riprese virulenza nell’estate 1862, approfittando anche della situazione politica creatasi con l’arrivo in Calabria di Garibaldi, che con un gruppo di fedelissimi cercò di portare a compimento il suo sogno di “liberare“ Roma dal Papato. Questo comportò l’afflusso in Calabria di numerose truppe, distolte dalle altre Provincie. Poi, Garibaldi fu ferito sull’Aspromonte e dovette rinunciare al suo progetto politico. 

Il brigantaggio nel 1862 aveva assunto dimensioni molto consistenti, tanto da  destare preoccupazione non solo negli ambienti militari, ma anche in quelli politici per il timore che i briganti avrebbero potuto prendere il controllo di qualche importante città, come Cosenza, Foggia e Potenza. Pertanto, in Parlamento fu insediata una Commissione di inchiesta sulle cause del brigantaggio nelle Provincie meridionali, che concluse i lavori nel maggio 1863 con una relazione, scritta dagli onorevoli Giuseppe Massari e Salvatore  Castagnola, che  fu illustrata e discussa in Aula nelle Sedute Segrete del 2-4 maggio e del 3-4 agosto 1863.

Nella Relazione, dopo l’analisi delle cause politiche, sociali ed economiche che avevano portato alla diffusione del fenomeno, si sollecitava l’emanazione di una legge speciale a carattere repressivo. Pertanto il deputato aquilano Giuseppe Pica  presentò una proposta di legge che, considerata la gravità del fenomeno e l’urgenza di provvedere, fu subito messa in discussione e fu approvata a larga maggioranza. Fu promulgata dal re Vittorio Emanuele II il 15 agosto ed assunse il nome di Legge Pica, dal nome del deputato che l’aveva proposta.  Entrò in vigore il 1 settembre 1863; doveva rimanere in vigore fino al 31 dicembre dello stesso anno, ma fu prorogata fino al 7 gennaio 1864 quando fu sostituita da una nuova legge, detta Legge Peruzzi-Della Rovere-Pisanelli, che rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865, quando si stabilì che non vi era più la situazione di emergenza.

In base alla Legge Pica la competenza a giudicare i reati commessi dalle “bande”, nelle province dichiarate “in stato di brigantaggio” passò ai Tribunali Militari di Guerra. Si prevedeva la pena di morte, mediante la fucilazione, o i “lavori forzati a vita”, a chi resisteva con le armi, e la riduzione della pena per i briganti che si dissociavano e si presentavano spontaneamente, entro un mese dall’entrata in vigore della legge. Si doveva inoltre tenere il bestiame nei centri abitati per evitare che fosse preso dai briganti per la propria alimentazione. Si bruciavano i casolari isolati o se ne muravano le porte e le finestre, per evitare che potessero essere utilizzati dai briganti. Si istituirono infine le Giunte provinciali di sicurezza, che dovevano compilare le liste delle persone sospette, da inviare al “domicilio coatto”, come i vagabondi, gli oziosi, i favoreggiatori (detti manutengoli) dei briganti. Si formarono anche Compagnie di volontari, dettisquadriglieri, arruolati, per  il supporto alle forze armate impegnate nella repressione, nelle zone in cui operavano i briganti e quindi in grado di poterli “trovare” perché buoni conoscitori del territorio.    

La Legge Pica produsse effetti positivi nel debellamento del brigantaggio, al quale contribuirono sia la diffusione della pratica delle “ricompense” concesse dalle Autorità per la cattura dei briganti (il perdono e premi fino a 1.000 lire per ogni persona catturata, anche per il brigante che consegnava, vivo o morto, un suo compagno) sia la crescente insofferenza popolare per le attività, molto spesso efferate, compiute dalle stesse bande (diventate circa 400 con una consistenza di circa 80.000 aderenti), che erano ormai costituite essenzialmente da delinquenti comuni, senza avere più alcun riferimento “legittimista”, a sostegno dei Borbone.

Nel 1864, i soldati impegnati nella lotta al brigantaggio erano circa 120.000, più della metà degli effettivi dell’esercito. Molti soldati contrassero la malaria o il tifo, considerate le precarie condizioni igieniche delle zone in cui svolgevano il servizio.

Molto spesso il comportamento delle truppe fu sproporzionato e sanguinario, con la fucilazione sul posto dei briganti catturati, senza alcun giudizio, e l’attuazione di rappresaglie nei confronti della popolazione locale, accusata di aver dato sostegno ai briganti, che si concludevano con la distruzione dei villaggi e l’uccisione di molti abitanti, tanto che ancor oggi il ricordo di quelle efferatezze è ben presente nella memoria locale.

Alla fine del 1865 il fenomeno del brigantaggio era pressoché debellato, tanto che non fu prorogata la Legge Pica. 

Il brigantaggio riprese però vigore nel 1866, quando, in seguito allo scoppio della Guerra di Indipendenza contro l’Austria, l’esercito fu inviato al Nord, sguarnendo le Regioni meridionali. Terminata la Guerra, le Autorità istituirono, per meglio combattere il brigantaggio, le Zone e Sottozone  Militari, con presidi fissi di soldati  nelle principali città  e con reparti mobili, operanti nelle campagne, per la ricerca e la cattura dei briganti e dei loro fiancheggiatori.   

Inoltre il Governo strinse accordi con i governi pontificio e francese per l’estradizione dei briganti rifugiatisi nei loro territori. In particolare, il  24 febbraio 1867 fu firmata la  cosiddetta Convenzione di Cassino, in base alla quale i briganti riparati nello Stato Pontificio, per sfuggire alla cattura, erano estradati nel Regno d’Italia. 

Nel 1870 finì l’emergenza del brigantaggio, ormai enormemente ridotto nella sua consistenza numerica, e pertanto cessò di essere  un “problema politico” per diventare un semplice “problema di ordine pubblico”. La Calabria però rimase una Regione “non sicura” perché continuarono ad operarvi una decina di bande, costituite prevalentemente da delinquenti comuni che si finanziavano con i sequestri di persona dei signorotti locali, i quali pertanto erano costretti ad avere una scorta  di guardie private armate. Spesso, i briganti mutilavano i sequestrati, tagliando loro un orecchio o un dito della mano, per sollecitare il pagamento del riscatto. 

Caratteri delle bande di briganti

Le bande dei briganti avevano una  composizione ed una consistenza molto diversa: erano infatti formate da ex soldati borbonici, renitenti alla leva e disertori, delinquenti comuni ed erano composte da pochi elementi – in genere una decina – fino a qualche centinaio. Complessivamente, si contavano oltre 400 bande con una consistenza di circa 80.000 aderenti, senza contare i favoreggiatori (i cosiddetti manutengoli). 

Ogni componente la banda aveva un preciso ruolo, o di combattente o di addetto alla logistica (alla quale erano addette anche molte donne). L’armamento era molto diversificato: pistola, doppietta, schioppo ad una canna, carabina a percussione, sciabola, baionetta. In genere  le armi erano prese ai soldati catturati. Riguardo all’abbigliamento, molti briganti portavano gli abiti dei “cafoni” (contadini meridionali): calzoni corti fino al ginocchio, legati da lacci e fasce fino alla caviglia; giubbetto; mantella corta; cappello a cono. I capelli erano ornati di nastri e per scarpe portavano le cioce.

L’attività delle bande era in genere intermittente nel corso dell’anno: nei periodi invernali, l’attività era sospesa per le condizioni climatiche e riprendeva in primavera. In particolare, in Abruzzo riprendeva con il ritorno delle greggi dalla Puglia, con la transumanza dai pascoli della pianura dove le greggi avevano svernato.

Inoltre, le bande non erano tutte sempre attive: infatti alcuni componenti si riunivano agli altri in occasione del compimento di qualche azione particolare, per poi ritornare alle propria attività di contadino, di pastore o di artigiano, nei paesi nativi.

Il ricambio degli aderenti alle bande era molto alto. I caduti ed arrestati erano sostituiti da nuovi aderenti, in gran parte renitenti alla leva (in alcune province non si presentavano neanche la metà dei chiamati alle armi). Si diceva che “sparito un brigante, ne comparivano sette”.

Le bande avevano un proprio codice d’onore. La disciplina era ferrea e chi sbagliava era severamente punito, anche con la morte. 

Le bande avevano anche regole di comportamento molto precise in combattimento. Si doveva: colpire per primi gli ufficiali, per  favorire lo sbandamento e la ritirata del reparto militare; uccidere i soldati catturati, spesso dopo averli torturati e mutilati, in modo da impressionare la truppa; eliminare soprattutto glisquadriglieri” perché erano considerati traditori; uccidere il compagno ferito per evitare che fosse catturato e quindi fucilato; attaccare quando si era in numero molto superiore ed in posizione vantaggiosa; colpire con il pugnale o il coltello nelle parti del corpo più delicate, come la pancia, causando ferite dolorose e non curabili.

Giorgio Giannini

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