Quando abbiamo scritto Le bambine di Terezin in tanti ci chiedevano qualcosa per il Giorno della Memoria, noi sentivamo la responsabilità civica su un tema tanto importante e cercavamo qualcosa che ci portasse dai ricordi agli insegnamenti “vitali” dell’universo Shoah (per dirla con l’ebraista Maria Teresa Milano), qualcosa che potesse contenere anche leggerezza, poesia, speranza e sinergia tra passato e presente. E così nel cercare abbiamo trovato prima i disegni, poi le poesie, poi i diari, gli spartiti, qualche documentario, il film di propaganda e poi siamo andati a Terezin; in una gelida giornata di novembre abbiamo preso il bus da Praga e dopo un’oretta siamo scesi nella grande piazza, deserta (o almeno così la ricordo) e da lì siamo partiti a camminare per incontrare la vita, le arti e le tantissime morti che hanno attraversato la città in quegli anni.

Cos’è Terezin

Terezin è stato un campo particolare, un campo di transito verso Est, per ebrei anziani e privilegiati, campo modello utilizzato per la propaganda, campo dei bambini e degli artisti, non un campo di sterminio in senso stretto; è stato luogo di annullamento della dignità umana e di morte, ma anche, ed è qui che abbiamo scelto di concentrare il racconto nello spettacolo, luogo delle arti per eccellenza, “paradiso culturale”, “isola di libertà spirituale”; artisti, attori, musicisti, pittori, così come filosofi e intellettuali vengono imprigionati e transitano da lì e, dopo le ore di lavoro per i nazisti, producono, immaginano, compongono, cantano, dipingono, freneticamente. E nelle caserme, oggi in parte diventate museo, si vedono le impressionanti testimonianze di una vita culturale vivacissima, poster, biglietti per gli spettacoli, costumi rattoppati ad arte, fondali fatti di cappotti, piccoli palcoscenici, migliaia di disegni, la lista è lunghissima e il viaggio commovente.

E poi ci sono le voci dei bambini e delle bambine e tra loro c’è Helga (Weiss) la “mia” testimone d’eccellenza, i suoi disegni, gli acquerelli in special modo, mi hanno colpita da subito, il suo diario pubblicato nel 2013 ha nutrito di parole lo spettacolo e soprattutto Helga è sopravvissuta, vive a Praga, ha fatto la pittrice, e ancora oggi lei e i suoi disegni dell’epoca girano l’Europa e raccontano. La sua storia mi aiuta a raccontare e ricordare i tantissimi che invece non ce l’hanno fatta ed è bello alla fine dello spettacolo mostrare la foto mia e di Helga nel nostro breve incontro a Reggio Emilia di qualche anno fa.
Helga è sopravvissuta, dice lei stessa, anche grazie all’arte, la nostra riflessione parte da lì e arriva ad oggi: il ruolo delle arti, della cultura, della musica, del teatro, della scuola che allora fu rifugio e salvezza, e oggi?

https://youtu.be/UZiBONYUs9g

Il disagio e il racconto, il mio retroscena

Quest’anno Le bambine di Terezin avrebbe sfiorato le 200 repliche e ci avevano invitato a raccontarlo a Praga.

Di solito gennaio è un mese intenso, frenetico e bellissimo, sveglie quotidiane che è ancora notte fonda, furgone ghiacciato, nebbie, chilometri, io poi non amo guidare, e essere da sola in furgone mi pesa, ma cos’è quel mio piccolo disagio rispetto alla storia che racconterò? E all’inizio di gennaio il ripasso del testo, il controllo degli oggetti, il cappotto rosso, il pianto della prima prova, da sola in sala, piango tutto lì, per poter fare un passo indietro quando sono in scena e lasciare l’emozione a chi partecipa con me di quelle storie. E la paura della prima, ogni anno, anche se è la 150esima, quell’istante in cui desidero più di ogni altra cosa la fuga, specialmente quando di là ci sono 200 ragazzi, il pubblico più esigente, che non sta in ascolto solo per buona educazione, ti devi guadagnare l’ascolto minuto per minuto e poi il silenzio, denso; a volte sento come andrà dai primi passi sul palco, altre volte è una conquista che arriva poco alla volta, a volte dopo lo spettacolo qualcuno ha un gran bisogno di parlare, altri no, hanno bisogno di una pausa. Di solito c’è spazio per domande e riflessioni, tempo prezioso. C’è un piccolo rito, esco di scena e rientro con un thermos di the, uno scialle, siedo sulla cassa e attendiamo senza urgenza di vedere se le parole emergono, e alla fine, all’uscita mi metto in fondo alla sala per chi non vuole parlare davanti agli altri. Lo scorso anno ad Abano Terme appena finito un giovane uomo in fondo alla sala alza la mano e dice “io non ho domande, voglio solo dire che mi è piaciuto, che sono stato immerso e commosso”.

E come sono diverse le serali, è un ascolto donato e fiducioso quello degli adulti, ma è più sofferente, il racconto mi risulta più cupo, le parole hanno un peso diverso, alcune non le vorrei dire, non le vorrei ricordare.

E poi c’è lo stare da sola in scena, sono sì accompagnata dal tecnico, da musiche, parole, immagini che mi sostengono, ma dal vivo sono sola; il Faber è un teatro di gruppo, di solito siamo in tanti a condividere la scena, a cantare, pedalare, raccontare, agire; è un privilegio avere tanti compagni di lavoro, specie in questi tempi in cui il teatro fatica a r-esistere, anche prima della pandemia intendo, e proprio per questo nostro essere un collettivo è anche bello poter fare esperienza del monologo che richiede un abitare il palco diverso.

Il teatro senza pubblico in tempo di pandemia

E un’esperienza nuova sarà anche il mettermi seduta mercoledì sera mentre la me registrata andrà in onda. Il dibattito sul teatro online è vivo e ci riguarda da vicino, ci sono nostri spettacoli impossibili da registrare, come quando facciamo cantare le chiese nello Stabat Mater o quando attraversiamo il tempo e lo spazio pedalando con il pubblico ne Il Campione e la Zanzara e poi ce ne sono altri, con impianto più tradizionale in cui possiamo sperimentare con il video. Così abbiamo fatto con Le bambine di Terezin, ora lo proponiamo, e siamo desiderosi di ascoltare e ringraziare chi vorrà farci sapere come è andata; di sapere se, in attesa di tornare dal vivo, possiamo sederci insieme, guardare un video fatto ad arte, senza pensare che sostituisca il teatro, piuttosto che ci accompagni in questo tempo inedito.

Paola Bordignon

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