Sono stato rapito dalla lucida e angosciata serenità di Edgar Morin.

Un ossimoro?

Anche, ma con una speranza che alla fine prevale sul pessimismo della ragione.

Il novantanovenne filosofo e sociologo parigino ha dato alle stampe la sua ultima fatica.

Il titolo racchiude, con un invito quasi gridato con dolcezza, il concetto primario della lunga riflessione di Morin sull’umanità e sul suo destino anche alla luce della pandemia non finita e non esaurita.

Cambiamo strada” è un monito che potrebbe essere completato con “prima che sia troppo tardi!”.

Una lucida analisi sulle ragioni che hanno portato l’umanità intera a capire un concetto apparentemente banale, ma in realtà nuovo e denso di incognite.

Viviamo un mondo che sembrava separato ma in realtà è inseparabile: “Un minuscolo virus – scrive Morin – comparso all’improvviso in un lontanissimo villaggio della Cina ha creato un cataclisma mondiale. Certo, di pandemie nella storia ce ne sono state molte. E, certo, l’unificazione batterica del globo si è realizzata con la conquista delle Americhe, ma la radicale novità del Covid-19 sta nel fatto che è all’origine di una mega crisi, composta dall’insieme di crisi politiche, economiche, sociali, ecologiche, nazionali, planetarie che si sovrappongono le une alle altre e hanno componenti, interazioni e indeterminazioni molteplici e connesse, in una parola complesse.

La prima rivelazione fulminante di questa crisi e che tutto ciò che sembrava separato in realtà è inseparabile”.

Sapremo valorizzare questa esperienza inedita “che mi ha molto sorpreso ma non ha sorpreso il mio modo di pensare, lo ha anzi confermato”?

Nel fotografare gli incubi dell’incertezza permanente che ci attanagliano, Morin parte da una constatazione: lui, uomo del ‘900, nato sulle ceneri della febbre Spagnola, ha vissuto il secolo probabilmente più affascinante e più tragico della storia dell’umanità, con davanti due obiettivi ben chiari, due avversari da combattere sempre e comunque: “Perché in fondo sono il figlio di tutte le crisi che i miei 99 anni hanno vissuto e alle quali ho reagito dedicandomi ad una resistenza intellettuale e politica contro le due barbarie che minacciano sempre più l’umanità: la vecchia barbarie, venuta dalla notte dei tempi, del dominio, dell’asservimento, dell’odio, del disprezzo, che dilaga sempre di più nelle xenofobie e nei razzismi, e la barbarie fredda, glaciale del calcolo e del profitto che domina in gran parte del mondo”.

Già, ma come?

Cambiare strada – dice Morin – diventa quindi vitale. Per farlo la civiltà occidentale può e deve diffondere ciò che ha di meglio: la tradizione umanista, il pensiero critico e autocritico, i principi democratici, i diritti dell’uomo e quelli della donna. Ma deve anche abbandonare la sua arroganza”.

Il pensiero di Morin dischiude la speranza pur avendo ben in mente i rischi della tragedia, del declino, dell’autodistruzione degli esseri umani: “La storia umana, con le sue grandezze, i suoi crimini, le sue schiavitù, i suoi imperi che regnano e decadono, è essa stessa una avventura formidabile fatta di creazioni e distruzioni, di miserie e di fortune. Viviamo questa avventura incredibile, con le sue possibilità scientifiche al tempo stesso meravigliose e terrificanti. All’interno di questa avventura sconosciuta ciascuno fa parte di un grande essere, insieme ai 7 miliardi di altri esseri umani, come una cellula fa parte di un corpo fra centinaia di miliardi di cellule. So che, nell’avventura del cosmo, l’umanità è in modo nuovo soggetto e oggetto della relazione inestricabile tra, da un lato, ciò che unisce (Eros) e, dall’altro, ciò che divide (Polemos) e distrugge (Thanatos). La parte di Eros è essa stessa incerta perché può accecarsi, e richiede intelligenza, sempre più intelligenza, ma anche amore, sempre più amore”.

Proprio su questa conclusione che si aggrappa disperatamente alla fiducia sulla parte migliore della comunità degli umani, mi è sorto un provocatorio ma stimolante dubbio.

Ho appena finito di rileggere alcune opere di Niccolò Machiavelli, quelle, soprattutto, in cui l’autore articola il suo ragionamento sul cosiddetto pessimismo antropologico.

Un dato da cui partire per immaginarsi il futuro dell’umanità.

Una riflessione che ha costituito il riferimento ideologico e politico di molti, famosi uomini di stato.

Benito Mussolini, ad esempio, grande appassionato di Machiavelli, ha tratto dai suoi insegnamenti i principi per la gestione mediatica del suo ruolo di Duce nei confronti del popolo. Proprio dal pessimismo antropologico di Machiavelli ha costruito il suo successo e il consenso che una stragrande maggioranza di italiani gli hanno dato per almeno 10 anni.

Cosa c’entra Machiavelli con Edgar Morin?

Lo lascio valutare a voi.

In fondo, pur apparentemente lontani, i due filosofi-sociologi, divisi da oltre cinque secoli di storia, non sono poi così distanti nella loro analisi.

Viste le caratteristiche basilari del genere umano, o nasce, ogni tanto, un soggetto in grado di “strappare” la normalità misera dei suoi concittadini, innalzandone obiettivi e valori condivisi, oppure la comunità rischia di avvilupparsi sempre di più in egoismi, rancori e violenze.

L’importante è che il “Principe” sia davvero illuminato e non solo “l’uomo nuovo della provvidenza”, presto trasformatosi, come la storia ci dimostra, in un dittatore sanguinario e corrotto.

Ma così ritorniamo al pessimismo antropologico…

Riccardo Rossotto

 

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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