Lavorare meno, lavorare meglio e lavorare tutte per le donne italiane è un sogno oppure una realtà possibile?

Questo il titolo di un convegno pubblico svoltosi in occasione della Festa della Donna presso il Comune di Torino, nella splendida location settecentesca della ex sede della Curia Maxima. Un bel modo per celebrare, in maniera non solo retorica ma anche propositiva, la giornata dedicata alla donna, intitolando il convegno ad uno degli argomenti più attuali e scottanti, quali appunto il lavoro, nelle sue varie declinazioni. Vero è che abbiamo “la” Presidente del Consiglio dei Ministri donna, “la” segretaria di un Partito donna, così come è stata eletta una donna quale primo giudice della Corte di Cassazione, ma la parità di genere reale nel mondo del lavoro purtroppo è ancora lontana e la strada da percorrere è ancora lunga.

La percentuale delle donne italiane occupate a livello nazionale è di poco superiore al 52% – percentuale più bassa della media europea – con un leggero aumento nelle zone del nord. Ma, come dato preoccupante, con una decrescenza generalizzata delle donne non occupate che cercano lavoro e, con una diminuzione del 2% rispetto agli anni passati, nella significativa fascia di età delle donne tra i 25 e 34 anni. Nelle relazioni è stato evidenziato che le differenze di genere esistono, ma che vanno valorizzati gli aspetti positivi di queste differenze, evitando le discriminazioni. A Cracovia il giorno della Festa della Donna viene ricordato come nei campi di concentramento molte donne si sono salvate grazie alla solidarietà che si era sviluppata tra le compagne di sventura. Solidarietà, senza discriminazioni di lingua, nazionalità e cultura, che ha talvolta permesso la sopravvivenza.

Il lavoro femminile deve consentire di adempiere all’essenziale “funzione familiare”

Sotto l’aspetto prettamente giuridico si può osservare che la nostra Costituzione all’art. 3 proclama il principio di uguaglianza e l’art 37 la ribadisce per la donna lavoratrice riconoscendole gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa retribuzione. Tuttavia, la seconda parte della norma, in un’ottica protettrice e tutelante, precisa che il lavoro femminile deve consentire di adempiere all’essenziale “funzione familiare “. Per quanto ovvio, vi sono state notevoli evoluzioni legislative dal 1947 e, in particolare dagli anni ‘ 70, la legislazione si è sempre più adeguata alla parità di genere, seppur con qualche piccola eccezione (ad esempio l’anno in meno di lavoro richiesto per le pensioni di anzianità anticipate).

Il gap salariale permane

Seppur l’art. 28 del codice delle pari opportunità, introdotto nel 2006, preveda la parità di trattamento economico a parità di lavoro, di fatto si assiste tuttora ad un gap salariale di genere, laddove gli stipendi (con riflessi, non dimentichiamolo, anche sulla futura pensione) delle donne risultano inferiori di una percentuale che varia dal 13 al 20% rispetto a quelli degli uomini (con variazioni meno notevoli nel pubblico impiego rispetto al settore privato), pari ad divario che costituisce il 5,7% del Pil nazionale.

Le mille forme della disparità

I meccanismi che permettono ciò possono essere vari ed incidere in maniera indiretta sul reddito, quali il requisito della presenza effettiva in servizio (penalizzante per le donne, al quale è addossato per lo più il dovere di cura della casa e dei familiari), nonché la discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro nell’elargire i cosiddetti “premi” di produzione. Interessante notare che tale gender gap risulta presente sia nei lavori meno qualificati che in quelli più qualificati. Anche le laureate donne in materie STEM (tecniche e scientifiche) guadagnano comunque meno dei colleghi maschi (il gap salariale raggiuge addirittura il 29%), pur possedendo nella maggior parte dei casi punteggi scolastici superiori. Infine, altra forma di squilibrio di genere si ha nell’allocazione del lavoro domestico e di cura: in Italia le donne lavorano in media 1 ora in più negli uomini (se si sommano lavoro pagato e lavoro non pagato), mentre la media nei Paesi OCSE il divario è di soli 21 minuti.

Le statistiche non sono confortanti

L’occupazione femminile italiana del solo 52,7% rispetto alla media Europea del 66,5% (con punte massime del Nord Europa) risulta essere molto bassa e migliore, in Europa, della sola Grecia, dopo il superamento di Spagna e Irlanda. All’interno della stessa Italia esistono differenze tra Nord e Sud, laddove al Nord ci si avvicina di più alla percentuale europea e al Sud ci si distanza ulteriormente. Al Centro nord, si assiste anche al fenomeno della relazione diretta tra occupazione e fecondità: si hanno più figli laddove vi è più occupazione e il reddito è più alto, mentre al Sud una maggiore partecipazione delle donne ha come effetto un minor numero di figli.

La pandemia, purtroppo, ha contribuito a peggiorare le cose

Dei 440.000 posti di lavoro persi nel periodo pandemico il 70% era costituito da donne lavoratrici, mentre delle 67.000 assunzioni post pandemia solo il 42,2% era al femminile. Si assiste ad un divario di genere anche nel mondo imprenditoriale: in Italia su un milione e quattrocentomila aziende presenti, solo il 22% ha una guida femminile! Un altro dato evidenziato nelle relazioni è quello secondo il quale, purtroppo, non sempre vi è l’equazione lavoro/ mancanza di povertà. Talvolta si assiste al fenomeno della povertà “da lavoro”.

Le cause sono diverse ma si possono riassumere così:

a) salari troppo bassi (in Italia non vi è un salario minimo legale)

b) poco lavoro (talvolta il part time è involontario, soprattutto per le donne che costituiscono il 66% del totale dei lavoratori a tempo parziale e talvolta non costituisce un’emancipazione bensi’ una discriminazione)

c) l’instabilità lavorativa (essenzialmente dovuta al precariato del mercato del lavoro);d) componenti del nucleo familiare che si hanno a carico ( un numero più alto non sempre corrisponde a redditi più alti).

Un secondo stipendio a cui spesso si rinuncia in mancanza di servizi sociali

Si consideri inoltre che generalmente lo stipendio della donna non è il principale, bensì il secondario nella famiglia. Ciò significa che, in mancanza di servizi sociali adeguati (quali gli asili nido pubblici, frequentati solo dal 12% dei bambini delle madri lavoratrici) in caso di maternità o comunque per esigenze di cura familiare, si rinuncia spesso al “secondo “stipendio, aprendo talvolta il rischio alla povertà “da lavoro”, nociva per la società e anche per l’economia (chi non ha soldi non può spenderli se non per lo stretto necessario). In Italia sono state stimate circa 1,9 milioni di famiglie in povertà. In un’ottica di lungo periodo, inoltre, ovviamente ma spesso tale aspetto non viene sufficientemente considerato, la rinuncia al lavoro avrà conseguenze negative anche in futuro sotto l’aspetto pensionistico.

Quali potrebbero essere le soluzioni per migliorare la situazione del gap di genere?

Sul modello di altri Stati Europei, si potrebbe introdurre in maniera obbligatoria i congedi parentali anche per gli uomini. Ma forse ancora più importante sarebbe il superamento degli stereotipi presenti nella nostra cultura che addossano il lavoro di “cura” principalmente alla donna, che indirizzano la preferenza femminile nello studio delle materie umanistiche rispetto a quelle tecnico/scientifiche più richieste dal mercato e meglio remunerate rispetto alle prime, attraverso un’evoluzione culturale che dovrebbe iniziare sin dall’infanzia, nelle famiglie e nelle scuole. Un bel riconoscimento al valore del genere femminile si è avuto dalle parole del nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale, in occasione della celebrazione istituzionale della Festa della donna, ha ricordato come non possa esserci alcuna libertà se non è condivisa tra uomini e donne e che donna è sinonimo di “coraggio, equilibrio, determinazione e pace”. Grazie Presidente!

Liliana Perrone

 

Liliana Perrone

Consulente legale di Intesa Sanpaolo

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