Nel corso della Seconda guerra mondiale, il 9 luglio 1943 le truppe angloamericane diedero inizio all’Operazione Husky, cioè lo sbarco in forze in Sicilia, prodromo dell’occupazione  dell’Italia. Sulla costa sud-orientale dell’isola sbarcarono gli uomini e i mezzi della VIII Armata britannica al comando del generale Bernard Law Montgomery e nel golfo di Gela quelli della VII Armata statunitense al comando del generale George Smith Patton, entrambe agli ordini del generale britannico Harold Rupert Alexander comandante in capo.

Della VII Armata statunitense facevano parte la 82ª Divisione paracadutisti “All American”, la 45ª Divisione fanteria “Thunderbird” e la 1ª Divisione fanteria “Big Red One”. A queste forze era stato affidato il compito di conquistare gli aeroporti italiani di Ponte Olivo, di Biscari San Pietro e di Comiso, essenziali per annullare le azioni italo-tedesche in corso contro Malta e i convogli nel Mediterraneo orientale e per proteggere lo sbarco e l’avanzata alleata nell’isola. E fu nel corso di queste operazioni che si verificarono episodi inverecondi e vere e proprie stragi ad opera dei soldati statunitensi contro militari disarmati e civili (vecchi, donne e bambini) italiani nelle zone di Acate, Gela, Canicattì, Piano Stella e Biscari, episodi che solo in un caso furono denunciati e sottoposti a processo come “war crime” (crimine di guerra) dalle Autorità statunitensi.

Il 10 luglio 1943 ad Acate in provincia di Ragusa un plotone di paracadutisti del 2° battaglione del 505° Pir (Parachute infantry regiment ) della 82ª Divisione fucilò, lungo la strada che da Acate porta al vicino comune di Vittoria, 16 civili (fra i quali il Podestà, sua moglie suo fratello) mentre stavano allontanandosi da Acate sotto attacco degli statunitensi.

Nello stesso giorno, nel corso della battaglia per la conquista della città di Gela (provincia di Caltanissetta) vennero fucilati da altri paracadutisti della stessa Divisione, nella località Passo di    Piazza, tra Gela e Licata, 8 carabinieri appartenenti alla Tenenza di Gela, che si erano arresi uscendo a braccia alzate da una casa in cui erano asserragliati e che era stata colpita dal fuoco  dei grossi calibri delle navi alleate alla fonda nel golfo, il cui tiro era stato richiesto e diretto dai    paracadutisti.

Due giorni dopo un bombardamento aereo alleato sulla città di Canicattì  (provincia di Agrigento) aveva causato gravi danni anche alla locale fabbrica di sapone, nella    quale si erano precipitati gli abitanti della zona per impadronirsi delle scorte: il 14 luglio il tenente colonnello George Herbert Mac Caffey, nominato Governatore Militare della zona dall’Amgot  (Allied military government occupied territory, Governo militare alleato dei territori occupati) uccise personalmente 7 civili (fra cui una bambina di 11 anni) dopo che i militari al suo comando avevano rifiutato il suo ordine di sparare sulla folla che stava razziando la fabbrica.

Il 13 luglio, nella contrada Piano Stella situata tra gli aeroporti di Ponte Olivo a ovest e di Comiso a est, nell’insediamento colonico Arrigo Maria Ventimiglia, un drappello di paracadutisti della 82ª Divisione uccise 7 contadini braccianti agricoli, scoperti inermi in un rifugio di fortuna dello insediamento, poiché indossavano una camicia nera scambiandoli per fascisti mentre in realtà erano soltanto portatori di lutto.

La strage di civili e militari più grave compiuta dagli statunitensi avvenne nelle vicinanze dell’aeroporto di San Pietro di Biscari in provincia di Ragusa il 14 luglio sui militari di servizio all’aeroporto. Questo presidio, composto da avieri e artiglieri della XVIIIª brigata della 209ª Divisione costiera italiana appena costituita, accerchiato dalle truppe del 180° Reggimento della 45ª Divisione statunitense, si era arreso senza combattere e aveva ceduto le armi. Fatti prigionieri, i militari furono divisi in due gruppi ad opera del maggiore Roger Denman: il primo, composto da 34 artiglieri, fu affidato al capitano John T. Compton (Compagnia C) con l’incarico di trasferirlo per interrogatorio al Comando del Reggimento a Biscari. 

Giunti in località San Pietro, sulla strada che dall’aeroporto porta al paese, il capitano fece scalzare  , spogliare e quindi fucilare tutti i prigionieri che pur erano stati riconosciuti dal maggiore Denman “disarmati e collaborativi” dopo la cattura. Un secondo gruppo di 13 avieri fu consegnato  al sergente Horace Timmy West (Compagnia A) col compito di scortarli nelle retrovie. Lungo la stessa strada percorsa da Compton incontrò un altro gruppo di 37 prigionieri (25 militari e 12 civili) provenienti dall’interno che aggregò ai suoi e che poco dopo fece fucilare tutti insieme (in totale 50 persone). Il giorno dopo il reverendo tenente colonnello William Edward King, cappellano della 45ª divisione, scoprì accidentalmente sulla strada di San Pietro i corpi di alcuni dei fucilati e denunciò il fatto e i probabili colpevoli al generale Omar Bradley, sottordine di Patton, che, successivamente, diede inizio alla ricerca dei responsabili. In tutto le truppe statunitensi avevano ucciso in Sicilia, nei primi giorni del loro sbarco (luglio 1943), 122 italiani inermi, di cui 80 militari e 42 civili (9 donne).

La quasi totalità dei militari statunitensi coinvolti in queste stragi non venne neppure inviata a processo a seguito di “indagini riservate” che non avevano portato ad alcuna loro imputazione.

Solo il caso di Biscari fu trasmesso alla Procura militare degli Usa che aprì una inchiesta sul comportamento del capitano Compton e del sergente West che portò alla loro incriminazione e al deferimento alla Corte marziale con l’accusa di “omicidio volontario premeditato per aver uccisoprigionieri deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole”. Entrambi i processi furono istruiti dal colonnello William O. Perry in due sessioni distinte (30 agosto West e 23 ottobre Compton) nel corso dei quali vennero messi in discussione sia il problema della  obbedienza dovuta da un militare a un ordine superiore sia la qualità e validità dell’ordine, poiché  i difensori degli imputati avevano accampato a loro discolpa l’aver ubbidito a ordini superiori, richiamandosi all’articolo 92 del Codice militare Usa che che stabilisce da un lato quando l’uccisione di nemici rientra in termini legali e dall’altro quanta obbedienza sia dovuta da un subordinato a un ordine ricevuto da superiori.

Durante i dibattimenti processuali – rigidamente condotti a porte chiuse – ordini diretti ai due imputati di uccisione di nemici disarmati non furono provati ma, a loro discolpa, vennero ricordati dalla difesa i numerosi “pep talk” (discorsi di incoraggiamento) tenuti dai comandanti alle truppe, miranti a incitarle a comportamenti feroci verso il nemico e a sollevarne gli scrupoli (colonnello Cookson, 180° Reggimento 45ª Divisione: “Voglio 3mila assassini nel mio Reggimento”; colonnello Shaffer, 8° Battaglione 1ª Divisione: “Non prendete prigionieri, ma eliminate i catturati”). La difesa esibì anche i testi “Soldier’s guide to Sicily” e “Sicily zone handbook 1943” distribuiti ai militari prima dello sbarco, nei quali gli italiani erano definiti “arretrati, ignoranti, ignobili, sporchi, degradati, viziosi, analfabeti, violentatori”   sollevando le truppe da ogni remora nell’uccisione di tali individui.

Ma soprattutto i difensori dei due imputati si riferirono al discorso tenuto dal generale Patton agli ufficiali delle truppe da sbarco  il 27 giugno 1943 con il quale raccomandava “…. se i nemici si arrendono quando tu sei a 200/300 metri da loro, non badare alle mani alzate, ma mira tra la terza e la quarta costola e spara. Voglio una Divisione di killer, è ora di uccidere tutti”. Queste parole di Patton servirono alla difesa per giustificare il comportamento dei due graduati il cui processo si concluse in due modi differenti: il capitano Compton venne assolto con la motivazione che le uccisioni da lui ordinate ebbero luogo “subito dopo e quindi in continuità con la battaglia, nel timore che la resa degli italiani fosse finta e attuata per disorientare le truppe americane”, mentre il sergente West fu  condannato all’ergastolo (peraltro condonato e rimesso in servizio nel dicembre 1944) per “aver ucciso prigionieri a notevole distanza di tempo dalla loro resa, senza sussistenza di pericolo  per le truppe “statunitensi e quando essi erano già protetti dallo status di prigionieri di guerra”.

Nel febbraio 1944 il generale Patton fu sottoposto a Washington al giudizio di una Commissione sul suo comportamento in Sicilia: nel corso delle udienze – riservatissime – egli affermò di aver voluto soltanto fortemente motivare, nella sua allocuzione del giugno 1943, quelle truppe che stavano per affrontare per la prima volta il nemico. Troppo importante era Patton al momento, per cui fu prosciolto da ogni sospetto, le stragi furono archiviate e negli Usa venne posta la censura militare su tutti quegli avvenimenti. Furono gli scrittori James J. Weingartner con il suo libro “The good war” (1998) e Stanley Hirshon con “General Patton: a soldier life” (2003) a portare a conoscenza del popolo americano quelle tragiche vicende così come lo furono per

gli italiani numerosi scrittori, fra i quali Gianluca de Feo (“Uccidete i prigionieri italiani”, 2004), Gianfranco Ciriaco ( “Le stragi dimenticate”, 2005), Franco Nicastro (“Gli alleati crudeli”, 2007), Gigi di Fiore (“Stragi e crimini dimenticati nell’Italia del sud”, 2012) e Domenico Anfora e Stefano Pepi (“Obiettivo Biscari”, 2019).

Una lapide marmorea che riporta i nomi degli italiani uccisi il 14 luglio 1943 presso l’aeroporto di Biscari è stata posta nel luglio 2012 a Sanpietro di Biscari (Caltagirone).

Gustavo Ottolenghi

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