L’epidemia della violenza e della volgarità. Del diffondersi, a tutti i livelli, anche istituzionali, di un linguaggio becero, violento, brutale, caratterizzato da continui turpiloqui, da gergalità di solito utilizzate da maleducati o ignoranti.

Le trascrizioni delle telefonate tra alcuni dei protagonisti della nostra cronaca nera di questa infuocata, non solo metereologicamente, estate, ne sono il segnale e la prova inconfutabile.

Finiti, per ragioni diverse, sotto l’occhio e l’orecchio degli investigatori, i protagonisti di questi fatti dimostrano che ormai la lingua italiana si è ridotta, nel linguaggio parlato, a non più di 400 vocaboli (già 2.000, lo ricordiamo, erano considerati dagli esperti, fino a qualche anno fa, la soglia minima per salvaguardare il nostro patrimonio lessicale, ma anche la nostra educazione civica!), di cui più di 100 dal significato inequivocabilmente violento, di insulto, di turpiloquio. Tutto quelle che, le nostre mamme, vietandocele a suon di ceffoni e castighi, chiamavano “parolacce”.

Una volta, almeno, si poteva dire: adesso, in presenza di queste derive relazionali, ci penserà la magistratura a condannare i responsabili e/o la scuola a formare meglio le nuove generazioni.

Purtroppo, anche queste due categorie professionali, come vedremo, sono entrate nel frullatore della catastrofe etica, linguistica e comportamentale. Anche loro, invece di conservare una funzione di traino virtuoso, si sono appiattite verso il basso, adottando linguaggi e condotte della peggior specie.

Si sono esercitati a ragionare su questa allucinante deriva del nostro “stare insieme” da un lato Gustavo Zagrebelsky, su La Repubblica, e dall’altro Mattia Feltri, su La Stampa.

Il quadro delle loro riflessioni ci aiuta a mettere a fuoco con più chiarezza dove siamo finiti tutti quanti noi, nessuno escluso, e, soprattutto, l’emergenza/urgenza di cercare di arginare e riconvertire una deriva relazionale che non può che portare ad ulteriori tragiche conseguenze.

Zagrebelsky mette in luce un aspetto fondamentale di questo drammatico quadro di insieme: “Il linguaggio che usiamo parlando in confidenza ed intimità…è una spia autentica, degnissima di fede…mette in mostra una sostanza…siamo come parliamo e parliamo come siamo”.

Zagrebelsky elenca poi un piccolo repertorio di quanto il “trojan” ci ha regalato in termini di ritratto lessicale del come interloquivano i massimi responsabili del CSM con alcuni politici di alto rango.

Il quadro che emerge è molto rude ed in termini cinematografici andrebbe “vietato ai minori”: ma ognuno di noi si chieda se, al di là della sorpresa dei termini usati dai più alti organi istituzionali del nostro stato, questo tipo di linguaggio non si sia impadronito del modo di essere di ciascuno di noi, quando, parlando con un amico o con un collega o comunque con una persona “complice”, ci lasciamo andare ad un repertorio di vocaboli che poi, riletti sulle trascrizioni della Polizia Giudiziaria, lasciano sbigottiti anche noi stessi. Sempre tardi però e sempre pronti…a ricominciare nello stesso terribile modo!

Zagrebelsky non è timido nel metterci di fronte a questa realtà ed elenca letteralmente e volontariamente quanto emerge dai dossier giudiziari: “quello, bisogna dirgli che ha rotto il cazzo; me lo metto a pecora”.

“Il cazzo – commenta il Presidente emerito della Corte Costituzionale – sembra avere un ruolo importante nella faccenda, perché viene evocato con frequenza: uno se l’è rotto e un altro l’ha rotto ad un terzo. Uno ha inculato un altro, ma c’è stato uno che è stato inculato a sua volta. Ci si prende, dunque – commenta tristemente e con ironia Zagrebelsky – vorticosamente per il culo. Uno ad un altro, il culo l’ha sempre protetto, però ora basta, rompiamogli il culo!”.

Zagrebelsky aggiunge poi altri protagonisti al teatrino del turpiloquio: “anche le palle e i coglioni hanno la loro importanza, perché ce li si rompe e ce li si spacca gli uni con gli altri, vicendevolmente. E poi ci sono quelli che, i coglioni, li hanno e quelli che no, e si capisce che si meritano trattamenti diversi. Non mancano – continua Zagrebelsky nella sua analisi semantica delle trascrizioni del gruppo degli amici del magistrato Palamara – accenni escrementizi, perché uno, al Quirinale, va su, mentre un altro si ferma al cesso, mentre c’è anche uno che, a quell’altro, gli caga il cazzo. In sintesi: è tutto un vaffanculo.”

Al di là di constatare che istintivamente saremmo portati a pensare ad un dialogo tra “adolescenti non ancora ben formati, ossessionati dal sesso e dall’ano”, Zagrabelsky sottolinea come questo tipo di linguaggio sia ormai funzionale e connaturato ad una “totale assenza di parole e idee che abbiano a che fare con le responsabilità dei turpiloquenti: magistrati in servizio, parlamentari, ex Ministri, ex magistrati”.

“Questo – conclude con amarezza Zagrebelsky – è un linguaggio della totale vuotezza etica, compensata da un pieno di trame, trattative, ricatti, diffamazioni e violenze, tipici di quei “giri di potere” parassitari che si aggirano nella zona grigia delle istituzioni…e il brodo di coltura dove alligna la pubblica corruzione, riemerso di recente prepotentemente nel “mondo di mezzo” di Mafia-capitale, così definito e persino teorizzato dai suoi stessi protagonisti”.

La sintesi finale del professore torinese è costituita, dunque, dalla tragica conferma che le modalità relazionali dei Buzzi e dei Carminati sono ormai analoghe a quelle dei Palamara e dei Ferri-Ricci-Lotti.

Anche Mattia Feltri ha colto questa deriva e nella sua rubrica quotidiana, Il Buongiorno, ha messo a confronto lo stile e il lessico diverso utilizzati dal nostro Ministro degli Interni e dalla comandante della Sea Watch3, Carola Rackete, negli infuocati botta e risposta prima dell’attracco a Lampedusa della nave olandese. Feltri annota che mentre la Rackete parla come un rappresentante delle istituzioni, Salvini “parla come uno dei protagonisti dei centri sociali”.

La prima usa espressioni come “le Autorità italiane sono salite a bordo, stanno controllando i documenti, attendono ordini superiori, speriamo si possa sbarcare presto…”.

Salvini si lascia andare a: “mi sono rotto le palle, è una fuorilegge, una sbruffoncella, il capo dei pirati, deve andare in galera…”.

Che dire?

Il Presidente Mattarella, a proposito dello scandalo del CSM, ha usato parole durissime e non consuete: al di là degli aspetti penali, le condotte che emergono dall’istruttoria reclamano interventi efficaci in termini di “disciplina e onore”, come dice l’art. 54 della Costituzione.

Zagrebelsky ha aggiunto nella sua analisi che “la posta in gioco è molto alta”, più alta rispetto alla stessa credibilità e fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.

Si sta commettendo un crimine contro la gioventù…in molti conosciamo tanti ragazzi e ragazze che si dedicano con passione e determinazione allo studio del diritto, attratti dalla magistratura…che cosa possono pensare di fronte a questi esempi repulsivi? Dovrebbero costituirsi, se fosse possibile, “parti lese” in un ideale processo di liberazione, insieme ai tanti magistrati alieni da quelle pratiche e sfiduciati nei confronti della professione che scelsero.”

Neanche più la scuola ci offre un “angolo” di speranza.

L’inchiesta sui concorsi truccati di Catania fa emergere, anche lì, dalle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, un quadro culturale e relazionale identico a quello del CSM, adottato o addirittura provocato anche dal nostro Ministro degli Interni.

Dobbiamo soggiacere al potere”, si giustificava in una telefonata il rettore-chirurgo dell’Università di Catania, Francesco Basile. Non era importante che venissero ammessi gli studenti migliori: “l’Università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, un’élite culturale, finora sono sempre state quelle le famiglie…”.

Se qualcuno dei candidati provava ad opporsi a questo sistema che privilegiava i “locali”, appoggiati dalle “famiglie”, magari impugnando la sua esclusione davanti al TAR, si scatenavano reazioni violente: “vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare – diceva letteralmente il Professor Basile – hanno pestano la merda e ora se la piangono”.

Insomma, cambiano i contesti, anche territoriali, ma nel nostro Paese, la lingua italiana ha ormai assunto questa conformazione: la semplificazione quasi sempre concentrata sull’uso di un turpiloquio che rende magnificamente l’idea di chi siano i buoni e chi i cattivi; di quelli che facciano parte del clan o di quelli che vanno espulsi.

Ci torna in mente, concludendo questo pezzo sulla tragica fotografia del nostro Paese e dei nostro modi di interagire con gli altri, un vecchio adagio che sostanzialmente diceva: “attenzione perché per cancellare l’educazione civica come materia del ciclo formativo scolastico ci vuole un minuto: per ricostruirla poi, tra i cittadini, ci vogliono due generazioni”.

L’angoscia che ci assale è che siamo finiti lì.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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