Abbiamo già dedicato ampio spazio ad un importante processo nel quale l’avvocato Bruno Segre assunse la difesa di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza in Italia, nel 1949.  Su ruolo dell’avvocato “progressista” abbiamo ruvolto alcune domande all’avvocato Segre.

Gradirei approfondire con Lei alcuni aspetti della Sua attività di legale, oltre a quelli già esaminati in precedenza, di cui si è occupato professionalmente. Inizierei dal processo che vide imputati di vilipendio alle Forze Armate, due giornalisti, Guido Aristarco e Renzo Renzi. Ce ne vuole parlare?

Nel 1953 la rivista Cinema Nuovo, diretta dal professor Guido Aristarco, pubblicò la sceneggiatura di un film del critico Renzo Renzi (collaboratore di Fellini e Visconti), sulla occupazione, da parte dell’Esercito Italiano, della Grecia nel 1941, dal titolo “L’Armata s’agapò”. Era un soggetto chiaramente antimilitarista, ma che rispondeva alla cruda realtà storica, fatta di saccheggi, fucilazioni di civili, donne stuprate e costrette a concedersi ai militari italiani per fame. Di qui il termine “s’agapò” che in greco vuol dire “ti amo”.

I due giornalisti furono incarcerati a Peschiera del Garda, nella fortezza militare e dopo un breve processo condannati, seppur con la condizionale. La questione giuridica, assai rilevante, era la seguente: come potevano due civili essere giudicati da un Tribunale Militare in tempo di pace? La sentenza di condanna aveva affermato il principio che i due soggetti erano pur sempre ancora, fino all’età di 45 anni, appartenenti alle Forze Armate, posto che solo al raggiungimento di quell’età cessava l’obbligo del servizio militare. La reazione a un tale iniquo ed illegittimo principio fu vasta. Si organizzarono comizi, interpellanze parlamentari e campagne di stampa alle quali aderirono i migliori intellettuali dell’epoca, da Bobbio a Salvemini e da Rossellini a Soldati. Lo stesso Presidente della Corte d’Appello di Torino, Domenico Peretti-Griva, scrisse su un quotidiano un articolo dal titolo “Arrestatemi, sono anch’io d’accordo con loro”.

E che cosa avvenne poi?

A questo punto mi offrii come loro difensore nel giudizio di Appello che venne immediatamente proposto avanti alla Corte d’Appello Militare. A prescindere dalle questioni giuridiche ritenevo di dover condividere l’idea di fondo dei due giornalisti che contestavano il comune sentire di allora che tendeva a sostenere che tutte le atrocità erano state compiute dai soli tedeschi, mentre gli italiani si sarebbero comportati correttamente. In realtà anche il nostro Esercito, purtroppo si macchiò, durante la seconda guerra mondiale, di orribili crimini contro la popolazione civile, mentre i responsabili (da Graziani a Roatta ed altri) erano ancora liberi ed impuniti.
La Corte d’Appello Militare assolse Aristarco e Renzi e dopo due anni venne approvata una legge che affermava il principio da noi sostenuto e cioè che il Tribunale Militare poteva giudicare un cittadino soltanto se questi era in servizio militare effettivo.

Veniamo ora ad un altro argomento di rilevanza sociale. Il divieto per i famigliari di poter vedere per l’ultima volta i propri cari deceduti se i medici ritenevano di dover procedere all’autopsia. Quale fu il Suo intervento?

Fui consultato dal marito di una donna, deceduta il 15 marzo 1956 all’Ospedale delle Molinette, al quale i medici rifiutarono che vedesse per l’ultima volta la defunta in quanto già trasportata all’Istituto di anatomia patologica per l’autopsia. Il vedovo protestò in quanto non aveva mai autorizzato che la salma della propria moglie fosse oggetto di autopsia o altri accertamenti scientifici. Pertanto, giudicando l’azione dei sanitari dell’Ospedale, lesiva del sentimento di pietà verso i defunti e del diritto di disponibilità personale del corpo, il vedovo denunciò il medico dott. Governa in base all’art. 413 c.p. che punisce l’uso illegittimo di cadavere. La difesa del dott. Governa segnalò una sentenza del Tribunale di Roma che, in un caso analogo, affermava che gli assistiti dagli Enti Mutualistici deceduti negli Ospedali, non erano esclusi dall’autopsia anche se mancava il consenso dei familiari. Tale giudizio si basava sull’opinione che i mutuati non essendo “paganti in proprio”, erano equiparati ai “non abbienti”.

Viceversa i mutuati ricoverati dovevano essere considerati “paganti in proprio” in quanto pagano i contributi personali e non sono quindi assistiti dalla pubblica beneficenza.
In qualità di legale del marito, quale patrono della Parte Civile, così argomentai che:
L’art. 413 c.p. richiede che l’uso del cadavere sia illegittimo, cioè che avvenga in casi non consentiti dalla legge. Il modo in cui si verifica la dissezione del cadavere (autopsia, riscontro diagnostico, incisione, mutilazione) è indifferente ai fini della responsabilità delittuosa poiché sempre si tratta di alterazione dell’integrità fisica del cadavere. Chiunque si proponga di sezionare un cadavere o di farne altro uso a scopo scientifico o didattico ha il dovere di informarsi circa i limiti posti dalla legge, onde egli, ignorandoli o trascurando di accertarsene, viene a meno ad un obbligo direttamente imposto dalla legge penale (art. 5 c.p.)”.

Il Pretore, quindi, condannò il dott. Governa con sentenza 16.17 luglio 1958 per uso illegittimo di cadavere alla pena della multa di lire 30.000 con il beneficio della sospensione condizionale e al pagamento di lire 50.000 a scopo di beneficenza oltre alle spese processuali e a quelle della Parte Civile. Subito dopo tale innovativa sentenza, al fine di evitare ulteriori dannose conseguenze, la classe medica si mobilitò presentando in Parlamento un progetto di legge che abolì la distinzione fra “poveri” e “ricchi”, sancendo l’obbligo dell’autopsia a scopo scientifico per tutte le salme. La nuova legge recava la data del 15 febbraio 1961 e poneva fine a questa illegittima differenziazione che contrastava in modo palese con i principi dell’assistenza sanitaria.

Alessandro Re

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