Antonello Sacchetti è diventato iranista per caso. Un giorno, a Roma, una ragazza iraniana, convinta che lui, per ragioni forse somatiche, sia un suo connazionale, lo ferma e in lingua parsi gli chiede una informazione. Di fronte alla sua incomprensione e stupore, la ragazza si scusa e chiarisce l’equivoco. Da quel momento nasce in lui l’interesse per l’Iran. Libri, viaggi, incontri lo portano in quel mondo, sul quale comincia a scrivere. La sua produzione iraniana gode pertanto, oggi, di diversi titoli: “I ragazzi di Teheran” (2006), “Misteri persiani (2008), Iran. La resa dei conti. (2009), La rana e la pioggia (2016), e l’ultimo, dello scorso novembre “Iran, 1979”, edito come gli altri da Infinito editore. Non solo, Sacchetti ha creato anche un sito, www.diruz.it, che informa continuamente in italiano sugli aspetti più diversi e controversi dell’Iran.

“Iran, 1979” è, rispetto agli altri titoli, un libro fondamentale per capire la storia recente del Paese che ha conosciuto la sua grande svolta nel 1979, con l’abbattimento dell’ultimo Scia di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, e la Rivoluzione compiuta dall’ayatollah Ruhoallah Khomeini, che già dal 1963, con un sermone lanciato dalla città santa di Qom, si era scagliato contro lo Scià e il suo “regime tirannico nemico dell’Islam” (sermone che poi gli costerà l’esilio in Francia).

Il libro di Sacchetti percorre tutte le tappe che hanno preceduto la Rivoluzione. Indaga pertanto sugli ultimi anni di regno di Reza Palhavi, con le sue forti riforme di tipo occidentale, forse troppo avanzate per un paese ancora immerso in una dimensione feudale, ancorché colta. La riforma, chiamata Rivoluzione bianca, si articolava in sei punti: “riforma agraria, nazionalizzazione delle foreste e dei pascoli, privatizzazione delle fabbriche di proprietà dello Stato, partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese, creazione del cosiddetto Esercito del sapere e piena concessione dei diritti politici alle donne, a cominciare da quello del voto.”

L’esercito del sapere voleva combattere l’analfabetismo, visto che nel 1962 il 95 per cento della popolazione iraniana che viveva nei piccoli villaggi (e parliamo ben del 68 per cento dell’intera popolazione) era analfabeta. La riforma, importantissima, prevedeva il trasferimento di giovani diplomati e laureati che, dopo un corso di formazione di 4 mesi, venivano spediti, con il grado di “sergenti insegnanti” nei villaggi a insegnare a scrivere e a leggere. Un compito che all’inizio viene affidato prima solo agli uomini e, poi, dal 1969 anche alle donne.

Lo Scià guardava a fare dell’Iran un paese moderno, tant’è che anche la moda avrebbe seguito canoni occidentali, come, ad esempio l’uso, da parte della donna, della minigonna. D’altra parte, di fronte all’opposizione del clero, Khomeini in testa, lo Scià si era trovato nella necessità di far sentire il suo pugno di ferro con provvedimenti impopolari che avevano le sue armi nella Savak (Sazman-e Ettelaat va Amniyat-e Keshvar), la polizia segreta che avrebbe fatto dell’Iran “a tutti gli effetti uno stato di polizia con stampa e magistratura sotto il pieno controllo della monarchia”. Scrive Sacchetti: “La Savak arriverà a contare oltre cinquemila agenti e potrà disporre di un budget di 100 milioni di dollari, ma si rivelerà tanto spietata quanto incapace di analizzare la situazione del Paese, di prevedere crisi e rivolte. Quando arriverà la rivoluzione, dimostrerà tutta la sua inadeguatezza”.

Rivolte in massima parte di studenti, oltre che del clero, anche se lo Scià cercherà di creare un corpo di ayatollah a lui fedeli, che però ben poco potranno incidere sugli eventi. Contro di lui giocava, oltre al trauma provocato da una così grande modernizzazione in un paese fortemente tradizionalista, la forte dipendenza, anche culturale, dagli Stati Uniti, visti come il demonio nella propaganda religiosa, e le sue manie di grandezza, “un delirio di onnipotenza” lo definisce Sacchetti, che culminò nel 1976 con i festeggiamenti dei 2535 anni dalla conquista di Babilonia da parte del venerato (ancora oggi, comunque) Ciro il grande. Tanto che lo Scià cambiò addirittura il calendario, così facendo trovare gli iraniani, da un giorno all’altro, proiettati dal 1355, anno dell’egira di Maometto, al 2535.

Lo Scià giocava male le sue carte. Ma le giocavano male, e molto, anche le altre opposizioni laiche al suo potere, come i comunisti del Tudeh, il partito comunista ufficiale ormai fuori legge, che si trovarono dalla parte di Khomeni, il quale naturalmente al momento si guardò bene dal rifiutare il loro sostegno per poi, poco dopo il suo ritorno plebiscitario dall’esilio parigino a Teheran, provvedendo a perseguitarli. La conseguenza di una politica, quella dei comunisti, fatta contro qualcuno invece che per qualcosa.

Sacchetti, in “Iran, 1979” fa poi una meticolosa storia e analisi di come la rivoluzione khomeinista si impose, attraverso varie fasi, nel Paese al punto da fare dell’Iran una Repubblica islamica che soffocò, ispirandosi a leggi islamiche discutili nella loro interpretazione estremamente integralista e contrarie a una visione laica e democratica, la libertà in ogni suo aspetto, incidendo pesantemente nella vita dei cittadini con obblighi assurdi come quello del velo per le donne (oggi non solo le iraniane, ma anche le turiste che arrivano in Iran, sono obbligate a portare il velo in pubblico, così come è bandito per tutti l’alcol). Questi aspetti repressivi, che trovarono comunque, volenti o nolenti, sottomissione nella popolazione e, in alcuni ambienti, elementi pericolosi che diedero spazio alla cosiddetta polizia religiosa che interveniva con violenza nel voler far rispettare un’idea tutta falsa di moralità, si coniugarono con la chiamata alle armi nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein che durò ben otto anni contribuendo alla unità patriottica del Paese.  Una guerra, ben raccontata nelle sue varie e complesse fasi da Sacchetti, che spiega come, “oltre a ricompattare la nazione di fronte al nemico esterno, la ‘guerra imposta’ fu una straordinaria occasione di mobilitazione collettiva di un Paese che non aveva mai avuto, in epoca moderna, un esercito di popolo. Non solo: la guerra rappresentò e rappresenta tuttora una memoria condivisa. L’unica memoria realmente condivisibile – da tutti gli iraniani, sia i favorevoli alla rivoluzione sia i contrari.”

Certo, la lettura che ne viene fuori, come sottolinea Sacchetti è che “chi morì in battaglia, nella retorica del regime, morì per la Repubblica islamica.”

Da qui, ancora oggi, l’esibizione per le strade, sulle facciate dei palazzi, sia delle città che dei villaggi, dei ritratti dei giovani morti in guerra, paragonati a martiri.

Ciò nonostante, pur con tutte le cautele – l’obbligo dello hijab, il velo, in pubblico per le donne è sempre obbligatorio e sanziona con la peggiore delle pene il suo abbandono – qualcosa si sta muovendo in senso più tollerante. Certamente, se non nella vita pubblica – come il caso, di estrema gravità, di Nasrim Sotoudeh, l’avvocata che ha difeso le donne che si erano tolte pubblicamente il velo per protesta – nella vita privata, il cittadino iraniano cerca vie di fuga disobbedendo a quanto si trova costretto a seguire in pubblico, bevendo alcol, vestendo minigonne e liberandosi del velo. C’è chi ha addirittura nostalgia dei tempi dello Scià.

L’auspicio è che, per parafrasare Bernard Hourcade, fondatore dell’IFRI (Istituto francese di ricerca in Iran) che aveva scritto che l’Iran “non è una democrazia ma è una repubblica”, diventi sempre più una democrazia.

Diego Zandel

Antonello Sacchetti, Iran 1979, Infinito Edizioni, pag. 173, €. 14,00

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