Elvis Malaj, albanese di Malёsi e Madhe, trent’anni giusti di età, da quindici in Italia. All’attivo: un libro di racconti “Dal tuo terrazzo si vede casa mia”, selezionato per lo Strega del 2018, e ora di un romanzo “Il mare è rotondo”, edito da Rizzoli.

Promessa della letteratura italiana o albanese?

Perché Elvis Malaj scrive i suoi libri in italiano, ma l’impronta, il carattere della sua opera, è profondamente albanese. Non a caso un occhiello sotto il titolo del suo romanzo strilla “Un romanzo balcanico”.

Divertente e tragico insieme, racconta la storia di Ujkan Brraka, un ventiduenne che aspira a venire a vivere e a lavorare in Italia, ma che non ci arriverà mai, anche la volta che, pagati fior di quattrini agli scafisti, di fronte alle coste italiane non ha la forza, la volontà, il coraggio, la voglia, non lo sa nemmeno lui, di sbarcare con gli altri profughi. Le circostanze poi – l’arrivo improvviso della polizia italiana – lo aiuteranno a tornare indietro con lo scafista che fino a quel momento, di fronte alla sua resistenza a sbarcare, gli stava per sparare, avvertendolo che, intanto, i soldi non li avrebbe comunque riavuti indietro. Ma Ujkan non lo faceva neppure per i soldi: il problema era che lui apparteneva a quelli per i quali, come recita il titolo del romanzo, “il mare è rotondo”, cioè è il mare del quale l’altra riva non c’è mai e si ritorna al punto di partenza.

Nel suo caso la città di Shkodёr, Scutari in italiano, dove si accompagna a due amici, Sulejman Shkёrdhata, un promettente scrittore, giovane seppur più grande di Ujkan, con un paio di libri all’attivo, e che in attesa del terzo si fa mantenere dalla moglie infermiera mentre si barcamena nella ricerca di lavoretti con i quali sbarcare il lunario, e Gjokё, figlio di papà, vitellone pure lui, che partecipa alla combriccola soprattutto quando gli altri due amici sono al verde e lo chiamano per farsi comprare una birra o un pacchetto di sigarette o, perché no?, spassarsela con una donna.

Ujkan in questo si rimette sempre alle iniziative di Sulejman, pieno ogni volta di idee fancazziste, finché non arriva quella, tra le tante, di raccogliere ferrivecchi per andarli a rivendere, dopo aver sentito in giro che si tratta dell’affare del momento. Sulejman convince così il mite e sottomesso Ujkan a tirar fuori un vecchio e malridotto camioncino di fabbricazione sovietica del padre per dare il via alla loro impresa, ma i due si scontrano ben presto con una banda di zingari che del commercio di ferrivecchi hanno il monopolio. Così va a finire che sono più le botte che prendono, piuttosto che i soldi, che gli zingari ben si premurano a rubar loro, con la raccomandazione per il futuro di attenersi al prezzo stabilito dal capo stesso degli zingari, un tizio al quale appioppano il nome di Ronaldo per il fatto che indossa una maglietta di calcio con su stampigliato il nome del campione portoghese.

I due potrebbero cavarsela, ma Ujkan è alle prese con una donna, Irena, di cui si è innamorato. L’ha conosciuta per caso un giorno che, trovandosi con l’amico Gjokё in mezzo a un gruppo di giovani persi dietro a birre, fumo, donne e vizi vari, non avesse riconosciuto in quella bella ragazza in cerca anche di un po’ di sesso, la stessa ragazza che quella mattina, passandogli in bicicletta sotto il naso, le aveva visto cadere dalla borsa un pacchetto di sigarette e, per questo, l’aveva chiamata e inseguita lungo la strada per restituirglielo finché, raggiunta, si sentì rispondere “Grazie, ma è vuoto. L’avevo buttato”. Rivederla la sera stessa Ujkan lo lesse come una predizione, ma quando lui le fa: “Ci siamo già visti”, lei neppure lo riconosce, dicendogli: “Sono qui da venti minuti e tu sei il terzo a cui sembra di avermi già vista. Io voglio solo passare una serata tranquilla. Se gliela do a qualcuno e poi la smettete, per ma va bene” per poi non esitare a proporgli: “Scopiamo”. Solo che il timido Ujkan ha dell’amore un’idea tutta romantica e quello che gli succede è di innamorarsi subito della ragazza, cominciando a farle nei giorni seguenti una corte sfrenata che Irena interpreta ben presto come un tentativo di stalking, finendo, all’ennesimo tentativo di abbordaggio, col puntargli la pistola contro. Ujkan le farà la promessa di lasciarla in pace: in realtà usa la parola albanese besё che equivale alla parola d’onore, perciò qualcosa di molto serio e rischioso nel caso di inadempienza. Ma inutilmente. Il destino farà che i due s’incontrino ancora e anche che finiranno a letto, ma l’amore di lei, quello non esiste ed ha altri risvolti che lasciamo al lettore il divertimento, seppur sempre in chiave comico-tragica, di scoprire.

Tutto il romanzo è questo intrecciarsi di avventure tra il commercio dei ferrivecchi, al punto di arrivare anche qui a risvolti surreali con esiti kafkiani che vedranno Sulejman e Ujkan in galera dietro ordine del primo ministro, implicato nello stesso commercio, e la sua storia d’amore con Irena in un gioco delle parti reso molto divertente dalla capacità di Elvis Malaj di ravvivarli con una scrittura in grado di trasmettere, nel suo insieme, lo spirito balcanico. Lo fa attraverso lo spaccato sociale che emerge dalla narrazione, ma soprattutto attraverso le figure dei personaggi che ben rappresentano lo stile di vita eccessivo, estremo, contradditorio di un mondo generoso e violento, ricco di passioni, amore, amicizia e corruzione, impregnato di tradizioni ataviche alle quali comunque la penna di Elvis Malaj riesce a dare quel tocco, tipicamente balcanico, di forte ironia, capace di sottrarle alla sacralità del passato, ricordando così che anche in Albania il mondo è cambiato.

Interessante che tutto ciò sia stato possibile esprimerlo in lingua italiana, il che conferma un fenomeno tipico di molti scrittori balcanici emigrati che hanno trovato nella lingua del loro paese di accoglienza la lingua letteraria.  Un fenomeno che mi fa pensare a una necessità dello scrittore di meglio prendere le distanze dal mondo da cui proviene, non assolutamente per disconoscerlo, bensì per il bisogno di guardarlo, e raccontarlo, con maggiore oggettività. Vale cioè, anche per Elvis Malaj e la lingua italiana, ciò che ha scritto di se stessa, in “Il mio approdo alle parole” la scrittrice croata Marica Bodrožić che, migrata all’età di 10 anni in Germania, ha eletto il tedesco a sua lingua letteraria: “Solo nel cammino della scrittura sento la naturalezza con cui i boschi della lingua slava giacciono in me. Come un pegno che risuona sempre dalla prima lingua e che mi rende finalmente qualcuno capace di dire qualcosa di sé. Ma la mia casa, le mie origini diventano percepibili soltanto nella lingua tedesca”.  E, personalmente, così come credo che Marica Bodrožić, nonostante la lingua letteraria sia diversa da quella madre, resti una scrittrice croata; così come credo che Aleksandar Hemon, nonostante i suoi libri scritti in inglese, resti uno scrittore bosniaco, allo stesso modo credo che Elvis Malaj, nonostante scriva in italiano, resti uno scrittore albanese. Per altro, dimostrando di possedere la stoffa per diventare davvero uno dei più grandi. Come nel suo romanzo, quasi scherzando, è scritto dell’amico Sulejman Shkёrdhata, compagno di bevute e nel commercio dei ferrivecchi che, con due romanzi all’attivo e un terzo in lavorazione, “Qualcuno aveva parlato di lui come di un secondo Ismail Kadarè” .

Chissà che non capiti Elvis Malaj questo onore, scrittore albanese di lingua italiana.

Diego Zandel

Elvis Malaj, Il mare è rotondo, Rizzoli, pag. 235, €. 18,00

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