Persino Chicco, il mio cagnolino che, pur avendo vissuto a lungo con me in Costa Azzurra, non può essere definito un fine politologo di questioni francesi, non avrebbe avuto dubbi. Ancor prima del turno preliminare di due settimane fa, la vittoria di Emanuel Macron alle presidenziali appariva ineluttabile.

Il Partito Socialista, che pure aveva espresso uno dei più grandi presidenti francesi del dopoguerra, “Roi FrançoisMitterand e che solo 5 anni fa guidava ancora il Paese con il simpatico tombeur de femmes François Hollande, appariva ridotto a numeri da prefisso telefonico. Qualche speranza avrebbero potuto averla i Repubblicani (più o meno i post gollisti, chiamati tradizionalmente “La Droite”) che, inaspettatamente erano risorti alle Regionali del 2021, arrivando primi con il 26,44% , davanti al Rassemblement National (R. N.) , fermatosi al 19,25%.

Del resto nelle presidenziali del 2017, il repubblicano euroscettico François Fillon, grande favorito prima di essere messo alla berlina da una massacrante campagna mediatica-giudiziaria rivelatasi successivamente di poca sostanza, insomma, un vero agguato politico, era arrivato comunque terzo con il 20%, a un soffio dalla finalista Marine.

Qu’est-il arrivé à la Droite?

Qualcuno attribuiva così qualche chance alla candidata della Droite Valérie Pécresse. Ma, per motivi che non mi sono del tutto chiari, (probabilmente per lo scarso appeal della signora, e/o perché la vittoria alle Regionali dell’anno precedente era dovuta a logiche di potere locale di un partito radicato sul territorio da 60 anni), da subito Madame Pécresse era apparsa fuori dai giochi. Previsioni confermate dalle votazioni che l’hanno vista sotto il 5%. Risultato vergognoso per gli eredi di un movimento che aveva espresso il maggior numero di presidenti della 5a Repubblica: De Gaulle, Pompidou, Chirac e Sarkozy, cui si può aggiungere Giscard d’Estaing, leader di un gruppo alleato dei gollisti.

Già da settimane prima del turno preliminare, era apparso chiaro che a contendere il successo a Monsieur le Président (o Monsieur le Banquier, come lo chiamano i suoi avversari, sia di destra che di sinistra) sarebbe stata la candidata della destra-destra Marine Le Pen, o, con qualche probabilità in meno, il candidato della sinistra antisistema Jean-Luc Mélenchon, leader di “France Insoumise”.

In entrambi i casi, vista l’incompatibilità dei candidati (nonostante diversi punti comuni nei programmi), i voti di Marine e del suo alleato Eric Zemmour, leader di Reconquete, non sarebbe convogliati (per lo meno in massa) sul rappresentante della Gauche estrema. E viceversa. E infatti Mélenchon, subito dopo il primo turno mise le cose in chiaro.: «Nemmeno un nostro voto al R. N.». Macron poteva contare invece sulla maggioranza degli elettori di quel che resta dei partiti “di regime”, anche se forse qualche neo gollista particolarmente nazionalista ha votato Marine.

Macron non poteva perdere

Per tutti questi motivi, Macron non poteva perdere. C’è anche da dire che nel confronto televisivo con Le Pen, ha stravinto. Sia pure privo di ogni empatia, si è mostrato molto più preparato su quasi ogni argomento, di una goffa e impacciata Madame Le Pen, tra le cui doti non spicca certo l’eloquio di un Giorgio Almirante o di un Gianfranco Fini prima maniera, ma nemmeno quello di suo padre o del suo alleato Zemmour.

Eppure, nonostante si trovasse di fronte avversari divisi e avesse l’appoggio incondizionato del main stream, Macron ha registrato solo una mezza vittoria, non arrivando al 59%. La più bassa nella storia della 5a Repubblica contro un candidato al di fuori di quello che in Italia qualche anno fa si sarebbe chiamato “Arco Costituzionale”. Nel 2017, sempre contro Marine, aveva ottenuto oltre il 66% (e 2 milioni di voti in più). Mentre nel 2002 Chirac aveva trionfato contro Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, superando l’82%.
Del resto, il primo turno i francesi stanchi del sistema di potere ben incarnato da “Monsieur le Banquier”, erano stati la maggioranza: 33% alla destra estrema, tra Marine Le Pen, Zemmour e il partitino sovranista “Debout la France” e 25% circa tra Mélenchon e i partiti della sinistra radicale.

Una mezza vittoria

Che la vittoria di Macron entusiasmi solo una minoranza, è confermato da un attendibile sondaggio appena uscito (Ipsos-Sopra Steria pour Radio France, France Télévision, Public Aénat e Lcp). Il 56% dei francesi si augura che dalle legislative del prossimo giugno esca un Primo Ministro anti Macron, così da dar vita a una cohabitation che renderebbe zoppo il Presidente appena eletto. Che, non solo per il voto popolare, ma anche a livello istituzionale, si ridurrebbe davvero a essere “Mezzo Presidente di mezza Francia”.

La cohabitation tra un Presidente di un partito e un Primo ministro di un partito avversario non è certo un fenomeno nuovo per la Francia. L’abbiamo vista tra il 1986 e il 1988 (Mitterand-Chirac), tra il 1993 e il 1995 (Mitterand-Balladour) e tra il 1997 e il 2002 (Chirac-Jospin). Ma si trattava di partiti che si riconoscevano nel “sistema”, con visioni vicine sui grandi temi e in particolare sull’Unione europea. Le distanze si traducevano in un’ora di lavoro in più o in meno la settimana, in un anno in più o in meno per andare in pensione, in qualche punto di tasse (soprattutto immobiliari). Qui invece, sia Mélenchon, sia Marine hanno una visione opposta a quella dell’eurocrate Macron.

Cosa succederà alle legislative del 12-19 giugno?

Presumo che Macron, grazie alle divisioni nel campo avverso riesca ad avere ancora un primo ministro di sua fiducia. A meno che, a sinistra, Mélenchon riesca a ricostruire il capolavoro di Mitterand, mettendo in campo una gauche plurielle che vada dal partito socialista all’estrema sinistra. O che dall’altra parte, grazie soprattutto alla mediazione di Zemmour e della sua vice Marion Maréchal (meno caratterizzata rispetto alla zia Marine le Pen), riesca un’operazione alla Berlusconi 1994, creando un Rassemblement tra la Droite tradizionale repubblicana, R. N. e Reconquete. Operazione, almeno per ora, più ardua rispetto a quella che spetterebbe a Mèlenchon.

Tradizionalmente i peggiori nemici dei lepenisti sono proprio i gollisti. Questo storicamente perché il F. N., Front National (papà di R. N.) non nacque, come da noi il MSI, dai fascisti reduci della Repubblica Sociale. Anzi, Jean Marie Le Pen (classe 1928), non era per Pétain e chiese di aderire alla Resistenza, ma non venne arruolato uffiicalmente perché troppo giovane e perché la sua famiglia aveva già pagato un tributo alla guerra, con la morte di suo padre. L’ispirazione storica del F. N. era la Guerra d’Algeria, non la Francia di Vichy.

Gli aderenti al Fronte consideravano i gollisti i peggiori traditori, perché avevano abbandonato, nonostante le promesse elettorali, il Paese nordafricano. Per questo Droite e Droite-Droite non si sono mai alleate. Tanto che a sdoganare J. M. Le Pen non fu un presidente gollista, bensì Mitterand (come del resto, negli stessi anni, un altro socialista, Bettino Craxi, aveva fatto con Almirante). Certo, sono storie di 60 anni fa. Ma, almeno per le elezioni di giugno, questi vecchi rancori dovrebbero contare ancora.

Milo Goj

Milo Goj

Milo Goj, attuale direttore responsabile de L’Incontro, ha diretto nella sua carriera altri giornali prestigiosi, come Espansione, Harvard Business Review (versione italiana), Sport Economy, Il Valore,...

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