Il prof. Mario Rasetti, presidente della Fondazione ISI di Torino, specialista di Big Data e di analisi predittive anche nel mondo delle epidemie come il Covid, ci onora della Sua presenza sulle colonne de L’Incontro.

L’autorevole cattedratico italiano, consulente con il Suo team di specialisti del Governo Conte durante l’emergenza sanitaria, ci ha inviato un Suo contributo che sarà pubblicato anche sulla rivista Bloomberg sui temi prospettici scatenati dal CoronaVirus.

Nel ringraziare il professore per aver voluto ricordare L’Incontro tra i suoi destinatari preferiti, vi lasciamo alla lettura di un pezzo di un protagonista di questa tragedia con cui dovremo convivere purtroppo ancora molti anni.

 

Non c’è dubbio che SARS-CoV2, il virus responsabile di Covid-19 sarà l’artefice di un cambiamento profondo nel nostro modo di essere e di operare. Gli storici del futuro ricorderanno un AC e un DC, avanti il Covid e dopo il Covid, che segnerà due epoche adiacenti ma molto diverse. Siamo nel mezzo di un processo che un fisico chiamerebbe una ‘transizione di fase’, un fenomeno in cui il sistema per effetto di agenti esterni cambia di ‘stato’ e si riconfigura in un nuovo stato caratterizzato dagli stessi agenti ma da un ordine – regole, modalità di comportamento, priorità e valori – diverso. Solo che chi subisce la transizione qui non è un magnete che si smagnetizza o ghiaccio che liquefa, è l’intero sistema planetario, inscindibile mistura di uomini, organizzati in società diverse (con tutti i loro paradigmi caratteristici: economia, finanza, il ciclo cibo-nutrizione-sostenibilità, comunicazione, etica), ed ambiente a subire la transizione.

I segni premonitori ci sono tutti: la pandemia da cui stiamo faticosamente cercando di uscire ha già messo drammaticamente in luce le numerose, serie carenze del nostro modo di prendere decisioni politiche ed economiche, e dunque anche sociali. Mentre alcune di queste carenze possono essere dovute alla mancanza di risorse adeguate, di competenze o capacità di elaborazione, o all’incapacità di pianificare a lungo termine, altre sono invece appunto sistemiche, cioè intrinseche, legate ai modelli/paradigmi adottati, nonché all’architettura dei processi decisionali di chi agisce nell’arena politica ed economica, siano individui, organizzazioni o collettività, anche nei casi in cui li definiremmo virtuosi.

Il punto cruciale è ovviamente la limitata capacità dei decisori di affrontare le complesse situazioni reali in assenza di strumenti adeguati ad estrarne la struttura dai dati. Proprio perché la condizione di fragilità anomala che si è creata dopo la fase acuta del Covid è sistemica, la riconfigurazione che essa induce sarà destinata a persistere. Ciononostante, sebbene inevitabilmente la transizione spinga l’ecosistema verso un nuovo stato, essa può in qualche misura essere governata. Nella crisi pandemica, infatti, la politica si è trovata a stabilire priorità ben diverse dallo ‘stato’ precedente su come proteggere al contempo il funzionamento dei sistemi sanitari, quello dei sistemi economici e finanziari, nonché gestire il raggiungimento degli obiettivi di cambiamento climatico e di conservazione ambientale, pur mantenendo e garantendo la sicurezza (sanitaria ma non solo) nazionale più ampia.

Per risolvere davvero questo enigma, dobbiamo tuttavia sviluppare un nuovo ordine di metodologie di supporto alle decisioni e di modalità di sostegno alla definizione delle politiche, che possano essere utilizzati per valutare rapidamente le situazioni critiche e fornire l’aiuto scientifico necessario ai responsabili delle decisioni e della politica. Un nuovo ordine alla base del quale la colonna portante siano valori etici forti e condivisi.

Mentre in tanti si concentrano sull’impreparazione politica dell’Italia nel gestire, oggi o tra un anno poco cambia, i 209 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione Europea attraverso lo strumento del Recovery Fund, vorrei portare la riflessione sulla capacità digitale del nostro Paese nell’affrontare questa partita. Quella che si apre con questo importante, e per molti versi inaspettato, fiume di risorse, non è infatti solo una questione di contabilità, o di strategia di spesa. È, o quantomeno a mio parere dovrebbe essere, una partita che si gioca sul saper costruire una visione forte del sistema socio-politico del dopo virus, primariamente “sul” e “con il” digitale. È un’occasione cruciale per riflettere sul ruolo che possono/devono avere i dati e le tecnologie necessarie alla loro interpretazione (intelligenza artificiale, machine learning, data analytics) in una strategia di ripensamento e rilancio del Paese a 360 gradi.

Questo non significa, banalmente, soltanto investire nella digitalizzazione del Paese, come si continua a ripetere da anni arrivando poi a risultati davvero modesti, o nulli. Ma comprendere, finalmente e una volta per tutte, che solo se mettiamo i big data, la loro intelligenza e il loro valore, al centro di una strategia di ripensamento radicale delle politiche sociali, economiche, sanitarie, ambientali possiamo davvero fare un salto di qualità.

Non è soltanto una questione pratica, o tecnica, ma anche eminentemente etica, sotto due aspetti. Primo, perché la raccolta, l’analisi e l’interpretazione dei dati sono processi che devono sempre essere operati all’interno di un quadro di norme etiche certe e condivise. Secondo, perché soprattutto in una fase di crisi sistemica come quella in corso ora e nell’immediato futuro, l’atto dell’investire deve necessariamente essere un atto etico. Che abbia un valore strategico, che sappia andare al di là dell’oggi e che produca un modello di società sicuro e affidabile per le generazioni future.

Per questo, le tecnologie e i metodi di raccolta e valutazione dei dati, oltre che rapidi devono essere anche flessibili e sufficientemente plastici. Flessibili, per interpretare informazioni eterogenee anche non convenzionali sugli eventi mentre questi verificano e in grado di integrare molteplici prospettive e discipline in una visione sintetica in grado di informare il processo decisionale. Sufficientemente plastici per apprendere, adattarsi, modificandosi progressivamente man mano che nuove informazioni diventano disponibili. Il tutto, in costante conversazione bidirezionale con la politica coi suoi processi decisionali, che a sua volta dovrebbe adattarsi rapidamente ai nuovi risultati.

Solo se partiamo da questi presupposti, e usiamo in questa direzione quel che i Big Data e le tecnologie di Intelligenza Artificiale ci mettono oggi a disposizione, possiamo porre i primi mattoni di quella costruzione – che la nostra politica non sembra in grado né di progettare né di controllare – che è il complesso modello integrato di ambiente, economia, società e tecnologia che sarà la comunità degli esseri umani nel mondo globale del dopo-virus. Proviamo a fare qualche riflessione mirandola a quattro fra i numerosissimi ambiti possibili.

LA SANITA’

Il primo ambito, data la contingenza dell’emergenza Covid, che ha acceso il faro su questo settore, è la sanità. Parto da un esempio. Lo Special Surgery Hospital di New York è considerato un modello assoluto di efficienza nella gestione medico-sanitaria. Opera 24 ore su 24, 365 giorni all’anno; grazie a un sistema ad altissimo contenuto tecnologico, fatto di analisi dei flussi e dei dati, nessuna stanza resta vuota per più di qualche decina di minuti al giorno, il tempo necessario per la sanificazione. Dal ricovero alla dimissione, il paziente segue un percorso perfettamente ottimizzato, zero inefficienze, zero sprechi di tempo, di personale, di materiale. L’ospedale perfetto. Ma siamo sicuri che questa iper-efficienza sia la strada su cui un sistema sanitario deve investire? Cosa avremmo detto, prima, se ad esempio l’ospedale di Bergamo avesse avuto tante camere di terapia intensiva vuote per una grande frazione di tempo? Non avremmo gridato allo spreco del denaro pubblico?

Io ragiono non da medico, ma da uomo dei dati, e vedo questo: l’umanità è afflitta da due tipi di malattie; quelle trasmissibili, di tipo batterico o virale, e quelle non trasmissibili. Le malattie non trasmissibili, da quelle metaboliche a quelle cardiache e in parte quelle oncologiche, sono conseguenza di cattivi stili di vita. Il nostro Sistema Sanitario, dai medici di base ai super-specialisti, oggi dedica l’80% delle sue risorse a curare la cronicizzazione di malattie dovute a cattivi stili di vita, dando come soluzione l’ospedalizzazione quando il quadro clinico arriva alla fase acuta della malattia e comunque una farmacologia sempre più costosa e insostenibile nei costi.

Una vera riforma del sistema sanitario dovrebbe partire da questa riflessione. Le tecnologie dei dati rendono oggi possibile lavorare in maniera raffinatissima sul fronte della prevenzione: esistono già tecnologie, dispositivi e sistemi in grado di verificare costantemente lo stato di salute dell’individuo, i suoi bioindicatori, prevenendo l’acutizzarsi delle patologie, monitorando il paziente al proprio domicilio e “chiamando” l’intervento del medico automaticamente solo quando necessario, e riducendo drasticamente la cronicizzazione della malattia e i ricoveri ospedalieri. La digitalizzazione estrema della sanità produrrebbe un enorme risparmio per il sistema, e consentirebbe di utilizzare le strutture sanitarie in maniera più mirata ed efficace.

LE INFRASTRUTTURE CIVILI

L’investimento su un grande piano di manutenzione e ristrutturazione delle infrastrutture civili è uno degli ambiti più sensibili di destinazione dei fondi post-Covid. Benissimo, ma anche in questo caso se non si pongono le tecnologie dei dati al centro di questo piano, di rischia di approdare a un investimento di corto respiro. Anche in questo caso parto da un esempio, vissuto in prima persona. Circa un anno e mezzo fa IBM ha promosso un investimento da 6 miliardi di dollari sull’IoT. Tra queste tecnologie, dei microsensori intelligenti da inserire all’interno delle strutture di cemento armato e in grado di rilevare un amplissimo spettro di oscillazioni, da quelle nell’ordine delle decine di centimetri che subisce un ponte per via del vento o dell’attraversamento di mezzi pesanti, a quelle infinitesimali date dai piccoli movimenti del terreno su cui poggiano i pilastri o le micro cricche e fratture del materiale. Se questi sensori, centinaia per ogni infrastruttura, equipaggiassero ponti, gallerie, dighe, ma anche costruzioni civili, palazzi di uffici, abitazioni, produrrebbero un’immensa quantità di dati, capaci di restituire una fotografia costantemente aggiornata non solo dello stato di salute della singola struttura, ma dello stesso territorio che la ospita. Se immaginiamo che ogni costruzione del nostro Paese sia equipaggiata con tecnologie di questo tipo, e che tutti i dati prodotti da questi sensori vengano messi a sistema e “letti” in maniera intelligente, ci rendiamo conto di come avremmo prodotto un investimento in sicurezza mai visto fino ad ora. A fronte di eventi di stress episodici come quello – drammatico – del ponte Morandi di Genova, ma anche nella prevenzione di eventi catastrofici come i terremoti. Anche in questo caso, si tratta di un investimento che mette al centro la tecnologia, e che produce un risparmio strategico sul lungo periodo: ad esempio la possibilità di gestire in maniera più efficiente e quindi economica, oltre che sicura, l’attività di manutenzione delle strutture.

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione si parla da anni, ma non possiamo più limitarci a pensare che questa parola si traduca banalmente nella possibilità per il cittadino di compiere online, da casa, pratiche burocratiche senza andare fisicamente allo sportello. Sarebbe, anche in questo caso, una sottovalutazione di quel che una riforma guidata dai dati potrebbe – meglio, dovrebbe – fare.

La pubblica amministrazione non è soltanto un insieme di periferiche che interfacciano il cittadino con i meccanismi dello stato; è lo stato stesso, la sua fisiologia, il suo funzionamento e i suoi processi, che sono processi decisionali, interazioni complesse fra cittadini e fra lo stato e i cittadini, da cui emerge il funzionamento della società. La società che si riconfigurerà nel dopo Covid sarà diversa da quella precedente, e la PA dovrà essere il conduttore di questo cambiamento, l’ispiratore dei nuovi modelli sociali cui vogliamo che il nostro paese si conformi: nuove forme di lavoro, di contratti di lavoro, di equilibri sociali – improntati a valori diversi di solidarietà e di pensiero collettivo.

L’intelligenza artificiale potrà farsi carico della ricerca dei nuovi punti di equilibrio di una società che uscirà cambiata e frastornata dall’esperienza della pandemia. Una esperienza di cui in questo momento, ancora intriso di stupore, non sappiamo valutare la valenza profonda: ma la domanda vera è «quale equilibrio saprà trovare nel suo sistema di valori portanti un paese nel quale centinaia di migliaia di persone avranno visto allontanarsi nonni, genitori, amici, senza neppure poterli abbracciare perché erano infetti, per avere mesi dopo null’altro che una urna di ceneri; private della consolazione di quei riti di congedo da chi ci lascia per sempre che l’homo sapiens ha inventato quindicimila anni fa e ancora oggi ci accompagnano?». Dovremo saper costruire un sistema in cui una intelligenza collettiva, mutuata dalla grandissima connettività che il digitale ci permette di raggiungere, ci consenta di elaborare questa ferita e curarne le cicatrici. E allo stesso tempo vivere la nostra vita di cittadini in modo più sereno ed efficiente.

IL TURISMO

Quasi mai si immagina che un comparto molto “fisico” come l’industria turistica possa essere uno dei principali beneficiari di una seria e radicale trasformazione digitale. Anche in questo caso, non parlo di interfacce, dei siti più o meno accattivanti e funzionali messi online per la promozione turistica o per le prenotazioni. L’investimento da fare, grande e strategico, è su quel che sta dietro. È su sistemi che siano in grado di raccogliere, leggere e mettere a valore quella scia di dati che ogni turista, italiano o straniero che viene in Italia lascia dietro di sé. Perché viaggia, come viaggia, dove viaggia, cosa fa durante il viaggio, cosa cerca, cosa sceglie, cosa visita, come spende. Ogni individuo che visita il nostro Paese, per turismo o per affari, genera una massa enorme di dati preziosissimi, che però non ci siamo mai preoccupati di raccogliere e usare in maniera coerente e intelligente. Esistono ormai strumenti di profilazione raffinatissimi, ma tutte queste possibilità che la tecnologia e la scienza dei dati offrono non vengono mai messi a sistema. Come se il turismo fosse esente da questa necessità, e potesse continuare a sopravvivere basandosi su iniziative episodiche, lasciate ai singoli – albergatori, ristoratori, tutt’al più consorzi, pro-loco, Regioni – e non essere al centro di un investimento tecnologico strategico. In questa fase post-emergenza, che ha annullato le vecchie logiche di gestione del turismo, forse è il caso di approfittare dell’occasione per un ripensamento complessivo di questa industria. Anche in questo caso, partendo dai dati.

Per porre questi mattoni, serve prima di tutto uno sforzo culturale. L’innovazione tecnologica da un lato è ancora considerata da molti qualcosa di superfluo, un “di più” da aggiungere eventualmente alla realtà. Per altri, è un qualcosa di fideistico, venerato spesso in maniera ottusa. A me piace la chiave di lettura che ne dava il grande scienziato – laico, badate bene – Freeman Dyson, amico da poco scomparso, il quale diceva che «la tecnologia è un dono di Dio. Forse il più grande dei doni dopo quello della vita. È la madre della civilizzazione, delle arti, delle scienze». Non una divinità, dunque, ma un dono che l’umanità ha a disposizione. Non gettiamola via, dunque, ma usiamola. Magari, per fare cose buone.

Mario Rasetti

 

 

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