Nel giro di un lustro o poco più la parola “resilienza” è diventata piuttosto trita e inflazionata. Nonostante identifichi in evidente misura i tempi che viviamo, viene spesso usata ottusamente finendo per significare tutto e niente. In origine la parola resilienza indicava semplicemente una precisa proprietà meccanica. All’incirca “la capacità di un materiale di adattarsi a forze dinamiche, assorbendo energia e deformandosi senza mai cedere”. Come dire: mi piego ma non mi spezzo. Una peculiarità di tutto rispetto, alla quale sociologi e psicologi hanno poi attinto a mani basse.

Così, poco per volta, il concetto di “resilienza” ha permeato la realtà delle famiglie che annaspano, quella delle aziende che arrancano. E anche la depressione degli studenti, le difficoltà dei liberi professionisti tenuti in ostaggio dal fatturato. Resilienza per intere nazioni, per il mondo intero. E tutti i possibili resilienti, immaginari, reali e potenziali, hanno finito per adagiarsi nell’eventualità di abituarsi a tutto. Alla fine, la vita stessa è diventata un esercizio di resilienza. Ce lo ricorda perfino il “Recovery Plan”, che infatti a suo tempo ha cambiato nome in corsa per chiamarsi “Recovery and Resilience Plan”. E dire che invece la parola “resistenza” (al netto dell’immancabile e inevitabile accezione storica e dei relativi valori di riferimento), funzionerebbe comunque meglio di resilienza.

Perché “resistere” significa essere coriacei, ostinati, battaglieri. E non solamente “adattabili”. La sensazione è che indugiando nella resilienza, inerzia e rassegnazione diventeranno uno “standard”. Finirà che dal certificato di residenza passeremo a quello di resilienza. Cose del genere. Forse, invece, insistendo nel resistere si riuscirebbe a dimostrare che, in fin dei conti, quel che si vuole non è abituarsi al peggio ma tenere duro per approdare al meglio. O no?

E sempre a proposito di parole che andrebbero limitate per ossessiva abitudine d’uso, eccone un’altra. Fin troppo attuale. Che è partita anni fa come “storytelling” (termine abusato senza ritegno dai media e dal marketing per indicare la smaniosa necessità di dare un’anima e una storia a ogni prodotto e a qualunque personaggio attraverso il “racconto” di qualcosa). E che dopo una rassicurante traduzione casereccia è diventata “narrazione”. Così oggi eccoci qua, a tirare avanti a pane e narrazione. Ogni notizia, ogni fatto, diventa narrazione. O racconto. Lo dice il giornalista, il direttore di rete, il reporter di guerra. Ogni fenomeno ha la sua narrazione. Il suo racconto. Parola di presentatore di prima serata, influencer dell’ultima ora, inviato speciale, ospite a sorpresa. Su ogni problema e per ogni questione c’è “narrazione”.

E se poi la gente che ascolta, e che sente parlare continuamente di racconto oggi e di narrazione domani, si confonde e inizia a percepire un fatto vero come una “storia” inventata? Potrebbe essere? Chissà. Intanto, Televisione, radio, giornali e social network continuano ad accessoriare ogni personaggio, informazione o resoconto con “narrazioni” e “racconti” ad hoc. Belli i tempi in cui “raccontare” e “narrare” voleva dire solo fare riferimento a storie di fantasia, miti, favole, fumetti, film, romanzi e romanzetti. Adesso c’è la “narrazione delle proteste di piazza”, il “racconto catastrofista del virus”, la “narrazione della transizione ecologica”. E ancora la “narrazione del governo sul PNNR”, il “racconto dal confine ovest”, quello sul gender gap. E via così. Narrazione e racconto in lungo e in largo. La forma non è sbagliata, ma alla lunga diventa un cliché.

Il contenuto non è sbagliato, ma alla lunga perde di senso. Non sarebbe più realistico, semplice e coerente usare termini credibili e parlare di “fatti”, “notizie”, “punti di vista”, “opinioni”, “esperienze”, “espressioni”? Di qualcosa di autentico da dire per chi è disposto ad ascoltare per davvero? O no?

Filippo D’Arino

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