Le case dai tetti rossi

Fino al 1978, cioè fino all’approvazione della Legge Basaglia, i manicomi erano luoghi di reclusione in cui i malati di mente, invece di guarire, finivano con l’abbruttire. Nella mente stessa, nel fisico, nei comportamenti, rendendosi, una volta dentro, davvero pericolosi per se stessi e per gli altri. Non era Franco Basaglia il solo ad averlo capito e ad agire ad ogni livello per combattere una battaglia che restituisse dignità di esseri umani a chi soffriva in quelle abiette strutture, ma anche altri psichiatri presso altre strutture ospedaliere.

Un romanzo testimonianza

Una testimonianza indiretta arriva da Alessandro Moscè, uno scrittore marchigiano che con una grave malattia – anche se non mentale, ma mortale come ha straordinariamente raccontato dieci anni fa nel suo intenso romanzo ”Il talento della malattia”, edito da Avagliano – ci ha convissuto durante gli anni dell’adolescenza. Quella adolescenza che ora ritorna in altra forma in un nuovo romanzo “Le case dai tetti rossi”, edito da Fandango. Un romanzo in forma, ancora una volta, di testimonianza. Ed è quella, appunto, di chi, ormai adulto e trasferitosi altrove, seppur nella stessa regione, ritorna al quartiere di Ancona dove è nato e cresciuto.

L’occasione è data dalla vendita della casa dei nonni, Altera ed Ernesto, situata a due passi dalle case dei tetti rossi. Ovvero la struttura dell’ex manicomio di Ancona, costruito agli inizi del Novecento, che comprendeva all’interno delle proprie mura un gruppo di palazzine, ciascuna delle quali rappresentava i vari reparti di contenzione dei malati mentali. E, subito, la memoria del protagonista che non si perita di darsi un alter ego, ma è lui stesso, Alessandro Moscè, fa rivivere se stesso, allora bambino, che gironzolava lungo i cancelli della struttura incuriosito da quei personaggi strani che vi si affacciavano, ciascuno con alle spalle la propria triste vita.

… e il giardiniere diventa un aiuto per i medici

Ed ecco comparire Arduino, il giardiniere, che non esitava ad aggreggarsi ai ricoverati, ai quali donava le sue attenzioni come faceva con le piante, considerate anch’esse creature.  “Le creature di Arduino non si sono mai seccate e le venivano a vedere da tutta Italia. Anche i botanici di professione, quei presuntuosi che avevano studiato ma che non sapevano accarezzare gli alberi. L’affetto per i vegetali era indispensabile come l’acqua. Mai poca, mai troppa. E sempre di mattina all’alba. O la sera prima del tramonto. L’acqua andava data a sorsi, non tutta in una volta. Le piante respiravano, espellevano, gradivano e rifiutavano. Erano delicate come bambini”, racconta Moscé.

La struttura ospedaliera cambia per una nuova visione della psichiatria

E così, con lo stesso amore si occupava dei matti, tanto che con il tempo divenne una sorta di “luogotenente” del professor Lazzari, il primario che con Basaglia aveva capito la necessità di un cambiamento radicale delle strutture ospedaliere. Aveva adeguato le terapie a quella nuova visione che avrebbe rappresentato poi la grande svolta nella psichiatria italiana.
Alessandro Moscè, nel suo vivo racconto mai viene meno nell’esprimere le proprie emozioni e, insieme, le considerazioni che l’incontro così quotidiano con quella tragica realtà aveva suscitato in lui. Fino a portarlo a scrivere questo libro, grazie al quale, mentre lui attraversa gli spazi tra quegli edifici ormai abbandonati, dai muri crollati e aggrediti dalle erbacce, riesce a far sentire le urla e le sofferenze di chi prima della legge Basaglia, ma anche prima del professor Lazzari, vi era stato rinchiuso.

Personaggi imprevedibili

Prima che Lazzari intervenisse con i suoi metodi uomini e donne avevano crisi angoscianti i cui esiti risultavano imprevedibili. I sintomi, abbietti, esplodevano e non sempre i medici sapevano come provvedere a calmare il paziente. Qualche volta Arduino, chiamato per fare il piantone al cancello d’ingresso come fosse una sentinella del manicomio, impediva la fuga degli ingestibili che tornavano prontamente indietro. I medici accorrevano quando suor Germana manifestava apertamente la sua impasse”, ricorda Moscé.

Suor Germana è un altro personaggio che entra nel romanzo di Alessandro Moscè, e personaggio, come gli altri, vero, autentico, non di fantasia, vedremo alle prese con esseri umani che si denudavano. “Si cospargevano di fango e poltiglia fino a che non venivano rinchiusi in isolamento con la camicia di forza”, che urinavano, defecavano, esprimevano la loro rabbia. Oppure, come Franca che sognava i nazisti e che, con la sua minigonna leopardata, si concedeva lungo le strade. O l’uomo che si sentiva Sandokan, ma che, se opportunamente curato avrebbe potuto tranquillamente svolgere una vita normale.

Ma chi sono i matti veri?

E, infatti, il professor Lazzari, a un certo momento, lo spinse ad andarsene. “Salva la tua pelle, Carlo. Una volta per la psichiatria saresti stato irrecuperabile. Ti avrebbero schedato nel casellario giudiziario del tribunale. Oggi sei nella società civile a pieno titolo”, spiegandogli come stanno le cose. “Se non ti sentissi Sandokan, saresti abile e arruolato. Personalità deriva dal latino ‘persona’, cioè ‘maschera’. Devi gettarla.” E, infatti, i giusti farmaci lo avrebbero poi aiutato.

Quel ‘malato’ che diventa un medico

Franca, Carlo… Le loro vite si intrecceranno con quelle di altri ex ricoverati come Adele rimasta al ricordo di Mussolini e nient’altro. O Giordano che colleziona bottoni e non faceva altro che parlare del Napoli di cui era tifoso, o l’uomo-giraffa… Arrivato alla fine del suo tour, l’autore sente che gli manca un personaggio, un amico che come lui abitava nello stesso quartiere. Luca, il figlio di Arduino, il giardiniere. Sono anni che Alessandro non lo vede, ma sa che, nel frattempo, è diventato psichiatra. Si affretta a cercare sull’elenco il suo numero di telefono, lo chiama per il bisogno che ha di condividere con lui quei tempi.

Ho visto che sei diventato psichiatra… Che ne dici di vederci?” E subito giunge la risposta di Luca. “Ti raggiungo. Ho la prossima seduta tra un’ora… Il tempo di attraversare la città.
Il romanzo si chiude con loro due che si abbracciano, in lacrime, nel mezzo del campo di calcio dell’ex manicomio dove, quarant’anni prima, insieme, avevano giocato una grande partita tra squadre miste con i matti, organizzata da Luca stesso, forse già allora con l’idea in testa di diventare un giorno psichiatra.

Diego Zandel

Alessandro Moscè, Le case dai tetti rossi, Fandango Libri, pag. 187, €. 17,00

 

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