L’euforia per gli esiti della trattativa europea sul Recovery Fund è passata.  La cronaca politica estiva si aggrappa a quello che passa il convento, che sia una classe dirigente dal valore di 600 €, Bettini e l’accordo PD-5stelle, il referendum, la legge elettorale. Avremo presto le regionali e le conseguenze del voto sul governo su cui parlare. L’esame di sostanza per il Governo però è solo rimandato perché sui fondi dell’UE dovremo discutere e concordare priorità, lavorare a fondo e con serietà su idee e progetti per portarli materialmente a casa. Dovremo spingere l’acceleratore anche sulla nuova programmazione dei Fondi strutturali che parte nel 2021 per andare fino al 2027. Perciò, al di là delle celebrazioni e dei tanti diversivi, ci sono molti elementi di grande importanza su cui concentrarci, perché su una cosa tutti concordano, che quelle risorse sono l’ultima chiamata per la modernizzazione del Paese.

Intanto i capi di stato UE qualche prima vittima nella trattativa l’hanno fatta. Stato di diritto, ricerca e clima escono piuttosto pesti dal negoziato, e altri dettagli di non poco conto sui fondi per la coesione, per l’education e l’agricoltura non sono stati ancora chiariti. Quando saranno resi trasparenti potremo trarre conclusioni più complete sugli esiti e le conseguenze della trattativa.

Comunque sia adesso tocca a noi. Dobbiamo scegliere, programmare, progettare e poi eseguire, non proprio propensioni naturali della politica nazionale e delle sue tecnostrutture. Per ora Palazzo Chigi raccoglie schede e idee dai vari Ministeri, metodo che pare discutibile, ma si vedrà se e come saprà portare il tutto a sintesi e visione strategica. Alcune priorità sembrano scontate anche nelle parole di alcuni Ministri: la transizione all’iper-connessione e alla sostenibilità delle economie, le infrastrutture saranno pilastri portanti degli investimenti. La prima domanda che si porrà il buon programmatore è se su queste traiettorie di sviluppo possiamo ancora giocare un ruolo di protagonisti, dunque vale la pena investire, e che cosa invece è ormai per noi irraggiungibile nello scenario della competizione tecnologica globale?

La sfida tra tecnologie è una gara tra big player industriali e istituti di ricerca di eccellenza, con investimenti in ricerca, educazione e innovazione estremamente rilevanti. Da qui verranno nuovi prodotti, servizi, mercati e modelli di business, nonché nuovi lavori e competenze. Da qui si comprenderà chi si posizionerà nelle cabine di comando della catena del valore della tecnologia e chi avrà un posto da follower nell’economia verde e digitale.

Scrive la Commissione Europea nel documento di politica industriale presentato il 10 marzo di quest’anno, e il grassetto sta a segnalare che la criticità del messaggio è voluta: “La duplice transizione avverrà in un momento di spostamento delle placche geopolitiche che ha ripercussioni sulla natura della concorrenza. La necessità per l’Europa di affermare la propria voce, di difendere i propri valori e di battersi per condizioni di parità è più importante che mai. Ne va della sovranità dell’Europa.”

Detto altrimenti, nel conflitto tecnologico attuale c’è in gioco anche la nostra indipendenza, autonomia e potere libero di decisione rispetto ad altri. È dunque comprensibile che la Commissione si preoccupi e tenti politiche correttive.

Se avete la pazienza di analizzare gli investimenti dei primi 2500 investitori in ricerca del mondo, vi farete un’idea di quali siano le ragioni dei timori della Commissione europea, di francesi e tedeschi in particolare. Gli investimenti fatti in R&D dalle maggiori società del mondo tra il 2018 e 2019 sono stati pari a 824.000 milioni di dollari, grossomodo il PIL dell’Olanda. Gli addetti di queste società erano almeno 56 milioni (i dati non sono completi). Tra i 2500 top investor in r&d, circa 500 sono europei, di cui 130 tedeschi e 70 francesi, 800 americani, 510 cinesi e ben 390 giapponesi, 70 sudcoreani e 90 di Taiwan, 22 in Israele, il resto sparso. Le aziende italiane sono una ventina, nessuna nei primi posti. Leonardo e Telecom le migliori piazzate poco dopo il centesimo posto. Sparse nella classifica troverete molte delle realtà multinazionali tascabili che sono il meglio dell’industria italiana.

In una decina di anni sono cresciuti gli investimenti di imprese cinesi in tutti i settori, sono rimasti stabili gli americani e i giapponesi, gli europei hanno perso terreno. L’allocazione degli investimenti degli europei nelle filiere ci colloca ancora molto bene nell’auto (Germania), come leader mondiali assoluti, nell’aereo-spazio, nel food (ma solo se consideriamo anche la Svizzera per l’effetto Nestlè), nel pharma e nelle biotecnologie. Teniamo nelle meccaniche e general industry, siamo deboli nell’elettronica, del tutto marginali nel digitale. Sui fattori abilitanti la nuova industria facciamo fatica, ma possiamo giocare bene nel green, mentre rischiamo seriamente di essere sudditi nell’ICT. Sulla frontiera delle tecnologie della salute abbiamo primati e qualità di ricerca. Questo era grossomodo il quadro articolato, complesso, in continuo movimento e che merita la grande attenzione che la Commissione dichiara di voler dedicare in futuro all’industria. Il Commissario UE all’Industria Thierry Breton ripete spesso che finita la fase della solidarietà deve venire quella in cui l’Europa cerca di difendere la sua sovranità tecnologica per tornare a crescere. C’è dunque di che riflettere.

Uno degli effetti collaterali del Covid pare sia stato l’incremento delle depressioni e dei disturbi ansiosi. Pur essendo alla guida della seconda potenza industriale del continente, l’attuale compagine di governo non pare afflitta dalle stesse preoccupazioni dei colleghi europei e sembra non soffrire di alcun tipo di ansia per le politiche industriali e per il destino della tecnologia italiana in particolare. Perciò, se per caso avvertiste primi sintomi di malinconia, meglio che stiate alla larga dalla bozza del Piano Nazionale delle Riforme, alla sezione III del Documento di economia e finanza.

Il documento ha un valore tutt’altro che secondario. È di fatto il primo passo verso il Recovery Plan su cui verremo valutati e che dovrebbe aprire le porte all’accesso effettivo alle risorse europee su cui per ora abbiamo celebrato la nostra bravura nella trattativa.

Il Piano si inerpica su tre assi strategici. Modernizzare per avere una Pubblica Amministrazione digitale, leggera e amica dei cittadini, costruire un ambiente favorevole all’innovazione e spingere la ricerca e la tecnologia. Un nuovo modello di sviluppo per la transizione ecologica, per ridurre l’impronta umana, investire nella bellezza (cito dal testo), e accompagnare le imprese verso la loro conversione ecologica. Ridurre le diseguaglianze, per una maggiore inclusione sociale, che significa istruzione, cura delle periferie, genere, sanità, gap nord-sud.

La strategia dei tre assi si esercita su ben nove linee, per atterrare su cinque priorità, con la produzione di un effetto finale di disorientamento che sa tanto di pasticcio, in cui strategie, obiettivi, strumenti si confondono frequentemente. Una certa dose di chiarezza in più darebbe più credibilità all’impianto complessivo ed elementi di valutazione meno ambigui.

Il Rilancio del Paese è centrato sugli investimenti in filiere giudicate particolarmente importanti. Si comincia dalla sanità, per migliorare il Sistema Sanitario Nazionale, ma anche per la farmaceutica e i dispositivi. Grande enfasi hanno turismo, cultura, spettacolo. Il documento si impegna in un aperto sostegno all’industria automobilistica in transizione green, al dossier ILVA e dedica un paragrafo alle costruzioni e alla manutenzione del patrimonio pubblico e le infrastrutture.

Le politiche industriali si affacciano a pag. 92 con l’ultima priorità: “L’emergenza ha evidenziato come sia necessario che il paese sia dotato di tutte le filiere produttive funzionali ad obiettivi di sicurezza e salute nazionale, che dovranno essere opportunamente definiti. Il Governo offrirà un sostegno affinché alcune produzioni ritenute necessarie siano mantenute nel territorio nazionale o rafforzate”. Per ora è ben poco l’interesse rivolto all’industria. La nostra propensione a rinviare le decisioni è nota a tutti, e anche se non ci piace adesso siamo padroni del nostro destino. Se al decisore non sarà ben chiaro che è nelle filiere industriali ad alta e media tecnologia che ci giochiamo la capacità di produrre valore aggiunto e lavoro nei prossimi decenni, quell’indipendenza e sovranità tecnologica che l’Europa giudica vitale difendere, per noi è a serio rischio.

Andrea Bairati

Foto: WHYFRAME/Shutterstock

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