Nella dissolta Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia, a Lubiana venivano chiamati “čefuri” gli immigrati dalle repubbliche meridionali, bosniaci, serbi, montenegrini, macedoni, che venivano a vivere nella capitale slovena. La parola corrisponderebbe a burino, a borgataro, gente per lo più volgare, anche nel linguaggio, sempre alle prese con problemi di vario tipo, particolarmente economici e che per sopravvivere ricorrono a una serie di traffici illeciti, in particolare quelli della droga, visto il mercato dei consumatori che ben fiorisce in queste lande cittadine, non senza chi, naturalmente, cerchi di tirarsene fuori.

 

Su questo tema il giovane scrittore sloveno Goran Vojnović ha scritto due significativi romanzi “Čefuri raus” e “Jugoslavia, terra mia”, il primo scritto originariamente nel 2008, e pubblicato in Italia nel 2015, il secondo uscito da poche settimane, entrambi editi dalla Forum di Udine nella ottima traduzione di Patrizia Raveggi.

“Čefuri raus” ha la sua voce narrante in uno di essi, Marko, figlio diciassettenne di madre slovena e padre bosniaco, il quale col tempo sente crescere la propria ostilità verso gli sloveni, che sono poi quelli che vivono nei quartieri bene, fighetti da prendere con le molle, mentre quando vai giù in Bosnia, “ti accolgono come se tu fossi la persona più importante di tutte, un re, solo perché sei dei loro”. Gli sloveni, invece “pensano solo per sé; se ce n’hanno abbastanza per sé e il macchinone e il villone, ne jebejo, non gliene sbatte un tubo di fratelli, sorelle, zie e zii.” Una frizione che il protagonista ha sentito crescere quando, arrivato agli undici anni, ha assistito a una guerra civile in cui i “čefuri”, da compagni di gioco e, in qualche modo, compatrioti, si sono trasformati in nemici o, comunque, in “altri”, diversi, addirittura stranieri.

Ancora più coraggioso il più recente “Jugoslavia, terra mia”.

Qui protagonista è sempre un čefur, Vladan Borojević, un ragazzo che conosciamo in due momenti della sua vita, ragazzino a Pola e trentenne a Lubiana, ma sarà già adulto quando scoprirà che suo padre Nedeljko, ufficiale dell’Esercito popolare jugoslavo, dato per morto nel 1992, in realtà è vivo e si nasconde sotto falso nome perché ricercato come criminale di guerra. Solo il tema, ad affrontarlo in Slovenia, fa tremare i polsi. Anche perché, a guardar bene, sia in Slovenia che in Croazia e Serbia (fanno eccezione un po’ i bosniaci), la guerra, quella guerra che si è protratta negli anni Novanta e che ancora oggi è tutt’altro che sedimentata, non è mai stata raccontata apertamente, solo accennata o per frammenti.

Invece Vojnović lo fa, e lo fa nella prospettiva più azzardata, mettendo nel ruolo di protagonista e voce narrante il figlio stesso, di madre slovena, di un criminale di guerra serbo.

E’ molto interessante come l’autore affronta la questione nelle diverse prospettive temporali. Certo, il fatto che Vladan sia un “čefur” lo aiuta, gli consente almeno tre punti di vista diversi, quello sloveno per via di madre, quello croato per essere cresciuto a Pola nei primi anni di vita col padre lì ufficiale dell’esercito ancora jugoslavo, e infine quello serbo, per via del padre e dei parenti di lui. In questo quadro l’autore affida al suo protagonista una parte di coscienza critica libera e autonoma, un po’ scanzonata anche, così da alleggerire attraverso l’ironia la pesante condanna nei confronti di una guerra assurda che ha tirato fuori il peggio a gente che forse per anni ha sedimentato l’odio dell’uno verso l’altro o, comunque, la rivalità, a dispetto della tanto conclamata fratellanza del motto titino “Bratstva i jedinstva”, cioè fratellanza e unità, che in realtà non c’è mai stata. Tanto che è bastato un allentamento della morsa seguito alla morte di Tito per scatenare tutto il livore che bolliva sotto il coperchio. “E tutto questo solo perché ognuno di loro aveva una qualche storia personale, di morti antiche mai digerite, delle quali non si erano mai fatti ragione” dice uno dei personaggi al giovane Vladan “Di qualche loro nonna o nonno, delle foibe, dei campi di concentramento. E quella storia in tutti questi anni li aveva rosi dentro, se la sussurravano di nascosto gli uni agli altri e aspettavano con pazienza che arrivassero neka druga vremena, altri tempi, tempi diversi, e allora avrebbero nuovamente parlato di queste storie a voce alta e davanti a tutti noi, e in loro nome avrebbero ucciso”.

I diversi momenti della vita di Vladan segnano anche le svolte del romanzo, la prima dall’infanzia ai sedici anni, quando, il padre trasferito a Belgrado, li costringe a tornare a Lubiana, mentre il nonno, vecchio poliziotto in pensione, mal sopporta che il nipote, a cui pure guarda con affetto e in spregio al padre serbo e alla propria figlia che l’ha sposato, non parli in sloveno ma nel serbocroato d’allora. Poi, proprio a Lubiana, Vladan sarà colto prima dalla dolorosa notizia del padre morto in guerra e poi dalla scoperta che si tratti tutto invece di una montatura escogitata per sfuggire alla condanna del tribunale de l’Aja per la strage di 34 civili e la messa a ferro e fuoco del villaggio di Višnjići in Bosnia. Da qui il suo partire alla ricerca del padre, ora nascosto sotto il falso nome di Tomislav Zdravković e in continuo movimento, un volerlo trovare quasi a volersene liberare in qualche modo.

“Ero dell’idea che mio padre non avrebbe più dovuto essere mio padre, dopo aver marciato su Višnjići (…) Mio padre doveva rimanere mio padre e non doveva trasformarsi nel generale Borojević, perché se mio padre diventava il generale Borojević, io sarei rimasto senza mio padre, e i miei unici dieci anni felici sarebbero svaniti con lui, rasi al suolo assieme al villaggio in Slavonia”.

Lo troverà? Non lo troverà? Sicuramente troverà gente, laggiù, che lo proteggono, che denunciano le colpe degli altri come la famiglia di čika Danilo, zio Danilo, o Emir Muzirović-Loza e le sue guardie del corpo, tutte persone dai colloqui con le quali emerge la distanza che separa Vladan da loro. Un viaggio che lo cambierà nel profondo, tanto che quando la compagna Nadja, che avrà una sua parte soprattutto nel finale, gli telefona e lui si trova in Bosnia, in un gelido hotel, sente la voce della donna amata come estranea. “Una chiamata dall’aldilà, la distanza tra Nadja e me non si misurava in chilometri. Il mattino precedente l’avevo lasciata che dormiva, in un mondo al quale avevo la sensazione di non appartenere più. In qualche punto durante il viaggio avevo passato un confine invisibile, scivolando nella mia vita vecchia, dimenticata, e non ero più convinto di essere sempre quello stesso Vladan con cui Nadja voleva sentirsi”.

Vladan se ne accorgerà quando alla fine poi davvero, in un ristorante di Vienna, si troverà di fronte al padre, che lo aveva chiamato quasi a invocarne il perdono. Ma avrà il torto di farlo attraverso la menzogna, millantando una innocenza che non ha. Menzogna che segnerà la sua fine, perché il figlio non è disposto a credergli, pur nel ricordo di un sogno interrotto a undici anni, quando era in attesa del padre che aveva promesso di portarlo a Cherso o a Lussino “in un’isola grande, più grande di Brioni, così grande da non credersi che sia un’isola”. Metafora forse di quella Jugoslavia che, a dispetto del titolo, ma anche a ragione del titolo è “moja dežela”, terra mia.

Diego Zandel

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