Il 2 maggio del 1991, a Borovo Selo, cittadina della Slavonia, la regione nordorientale della Croazia, furono uccisi da dimostranti serbi 12 poliziotti croati, mentre altri venti restarono feriti. Il grave attentato era stata una reazione a quanto accaduto il giorno prima, quando quattro poliziotti croati avevano tentato di sostituire sulla sede municipale la bandiera jugoslava con quella croata, provocando la reazione della popolazione serba del paese.

Si fa risalire a quella data, se non l’inizio, sicuramente i prodromi, i primi segnali, della guerra nella ex Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia, che ormai comunque, almeno dal 1989, viveva di tensioni tra le sei repubbliche – che, ricordo, erano la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Serbia e la Macedonia –  e le due province autonome della Vojvodina, dalla forte componente ungherese e quella del Kosovo, a maggioranza albanese. Tensioni che erano alimentate dalla grave crisi economica che devastava il Paese, arrivato a un’inflazione del 120 per cento, con debiti cresciuti negli anni a causa soprattutto dei prestiti internazionali, a garantire il pagamento dei quali era stata fino all’anno della sua morte, la figura di Tito, che per 35 anni aveva guidato il Paese con un ferreo controllo poliziesco a livello interno e con una grande credibilità a livello internazionale grazie a una politica di non allineamento, insieme all’Egitto di Nasser e l’India di Nehru. Posizione che gli avrebbe offerto la possibilità, di volta in volta, di essere un interlocutore privilegiato sia dei paesi filosovietici che occidentali. Non dimentichiamo che già nel 1949, dopo l’espulsione nel giugno del 1948 della Jugoslavia dal Cominform, ovvero dall’alleanza economica e ideologica messa su da Stalin, Tito ricevette dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna notevoli aiuti economici, interessato com’era l’occidente a tenere la Jugoslavia fuori dal blocco sovietico.  Ma, negli oltre dieci anni che seguirono la morte di Tito, in assenza di un’economia di mercato che producesse ricchezza e basata, per lo più, sulle rimesse estere degli emigrati ai quali Tito aveva concesso il passaporto dagli anni Settanta in poi e dai proventi del turismo, seppur allora non ancora sviluppato come lo sarebbe diventato dopo, i debiti divennero esponenziali, alimentando, tra l’altro, nelle singole repubbliche, quello spirito nazionalistico che in realtà aveva sempre, da secoli, covato, neanche tanto sotto la cenere, e che Tito – come scrive lo studioso Alessandro Vitale nel suo libro L’unificazione impossibile – aveva tentato inutilmente di scolorire “sostituendovi l’omogeneità forzata della classe operaia come padrona dello Stato multietnico attraverso il Partito Comunista”. Da qui le reciproche accuse di sfruttamento delle risorse economiche: accuse a Belgrado, ritenuto causa di sperpero in ragione del fatto che la maggioranza delle forze militari e della burocrazia erano composte da serbi; e accuse di Belgrado agli altri popoli di essere dei mantenuti. Resta a riguardo famosa una frase ricorrente a Belgrado che diceva: “Se gli sloveni volevano fare da sé, restassero pure senza la pagnotta serba che per settant’anni li aveva nutriti”.  

Inutili, nel passato, erano stati anche i vari tentativi di Tito di attuare politiche economiche di tipo liberale, anche interessanti, come ad esempio l’autogestione delle aziende, la cui gestione era stata nominalmente affidata alle stesse maestranze per attuare forme di concorrenza di tipo capitalistico con altre aziende. Ma la riforma aveva tutt’altro che eliminato il forte e indiscutibile dirigismo e controllo statalista attraverso il Partito Comunista da venire, di fatto, vanificata. Idem, quando si è data la possibilità di creare aziende private, ma con l’obbligo di non superare i 5 dipendenti, impedendo così non solo la crescita dell’azienda e lo sviluppo stesso dell’economia, ma aprendo il fronte del lavoro nero a persone che, di fronte allo stipendio statale che era di mera sopravvivenza, erano ben disposte, per vivere un po’ meglio, ad arrotondarlo lavorando clandestinamente con le micro aziende permesse, ma obbligate formalmente a restare tali. 

Il primo scontro armato in forma di guerra vera e propria ci fu con gli sloveni che, dopo il referendum del 1990, il successivo 25 giugno del 1991, come previsto, proclamarono pubblicamente, con un discorso del presidente sloveno Kučan, in piazza a Lubiana l’indipendenza della Slovenia.  Proclamazione analoga la fece lo stesso giorno anche il parlamento croato, ma mentre quest’ultimo si limitò a una dichiarazione di principio, quello di Lubiana passò ai fatti, cogliendo Belgrado alla sprovvista, proclamando la sovranità della Slovenia e, contemporaneamente, procedendo al presidio di 37 passaggi di frontiera con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria, e a posti di blocco con la Croazia, sostituendo da subito i simboli federali con quelli nazionali sloveni.

La reazione militare, compresa quella aerea, dei serbi, durata una decina di giorni provocò un numero limitato di morti, anche per una sorta di impreparazione dell’JNA, la Jugoslavenska Narodna Armija, l’esercito federale, composto da quadri più ideologizzati che preparati militarmente e strategicamente. D’altra parte, gli sloveni avevano tra i ministri Janez Janša, che già da anni aveva provveduto a rimodellare la Difesa Territoriale – ovvero la struttura parallela all’JNA, presente in ogni Stato della Federativa e istituita da Tito dopo l’invasione dell’Unione Sovietica in Cecoslovacchia, in modo da poter contare, in un caso analogo, sulla attiva partecipazione popolare – dandogli una struttura militare flessibile, in parte clandestina, di 36 mila uomini, con armi comprate segretamente da Israele e Singapore, che seppero rispondere all’esercito federale che pensava, con il suo intervento, di sbaragliare gli sloveni in quattro e quattr’otto. Così non fu, a dispetto dei 115 carriarmati, i 32 cannoni semoventi, gli 82 veicoli blindati, i 24 elicotteri e i 15 attacchi aerei in prevalenza contro obiettivi civili,  che l’Armata federale utilizzò contro gli sloveni, che dalla loro poterono contare anche sulle diserzioni degli ufficiali di questa, tra cui alcuni di origine slovena che si rifiutarono di obbedire ai comandi di Belgrado. Questo mentre tutti gli ufficiali sloveni che, in quel momento, si trovavano di stanza a Belgrado furono sostanzialmente imprigionati con le loro famiglie e trattati come nemici, così duramente da spingere addirittura una madre a uccidere il proprio figlio per risparmiargli altre sofferenze.

Così come Belgrado non capì la fine di un’epoca, neppure l’Europa si rese pienamente conto di cosa stava succedendo, in particolare a causa dell’influenza dell’allora presidente francese Mitterrand, che nella sua visione centralista dello Stato, si era mosso per una ricomposizione della Federativa, certo anche di condurre a ragione gli sloveni e senza tener conto che sia i tedeschi che gli italiani, con il ministro degli esteri Gianni De Michelis, erano già disposti al riconoscimento della indipendenza della Slovenia e della Croazia.  Ma, intanto, la Serbia, con l’intento di prevenire un’azione analoga a quella slovena da parte della Croazia, era partita in quarta occupando quelle regioni di confine con la Croazia, come le Krajne e altre parti della Slavonia in cui la popolazione serba era o maggioritaria, o minoritaria ma molto consistente. In questo, godendo della solidarietà dei serbi locali. A riguardo, una propaganda martellante, diciamo preventiva o allertante della Serbia, puntò da subito con il paragonare i croati tutti agli ustascia che avevano combattuto contro i serbi durante la seconda guerra mondiale. Si attivarono in questo senso anche molti nazionalisti serbi, bande come quelle del comandante Arkan, al secolo Željko Ražnjatović, capo dei tifosi della squadra di calcio di Belgrado, Stella Rossa, e con precedenti di rapine e omicidi, anche su commissione dei servizi segreti jugoslavi. 

Ecco, in quest’ambito si arriva all’assedio di Vukovar, una delle maggiori città portuali sul Danubio, assedio che sarebbe durato 87 giorni, tra l’agosto e il novembre  1991 per concludersi con la sconfitta e il ritiro della locale guarnigione della Guardia Nazionale Croata e la quasi totale devastazione della città, pesantemente sottoposta al fuoco delle artiglierie e azioni, casa per casa, di pulizia etnica. 

Le operazioni della Serbia, la cui guida passò tutta nelle mani di Slobodan Milošević, che vinte le elezioni, ben presto trasformò la guerra in un piano il cui fine era la ricostituzione della Jugoslavia in forma di Grande Serbia.  Cioè definendo i confini ovunque ci fossero comunità serbe, con l’idea di portare sotto di sè il 62 per cento del territorio della ex Repubblica Federativa, incurante del fatto che la  restante e in non pochi casi restante popolazione locale fosse composta di croati, bosniaci, ungheresi e di altra etnia. C’è da dire, a riguardo, che nel maggio del 1995 le regioni occidentali vennero reintegrate nella Croazia attraverso operazioni militari Bljesak  (Lampo) e Oluija (Tempesta), nel corso delle quali la popolazione civile serba fu trattata alla stessa stregua di come mesi prima i serbi avevano trattato quella croata: incendi, omicidi brutali, fughe. 

Comunque, tornando al 1991 e agli inizi del 1992, ben presto il progetto della Grande Serbia si estese alla Bosnia-Erzegovina dove, accanto alla maggioranza bosgnacca, cioè bosniaco-musulmana, esisteva una forte componente serbo-bosniaca e una altrettanto forte, sopratutto in Erzegovina, componente croata.  

E in questa zona della ex Jugoslavia si trasferì, senza trascurare gli altri territori, il grosso della guerra, culminata con l’assedio di ben 1425 giorni di Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, posta sotto il fuoco martellante delle artiglieria e dei cecchini appostati sui tetti dei palazzi, che uccidevano tutti coloro, uomini, donne e bambini, che cadevano sotto il loro mirino. In questo quadro, furono compiuti efferati crimini, come lo stupro di circa ventimila donne, e massacri come quello della città di Srebrenica, che avrebbe scosso il mondo, convincendo le grandi potenze, in particolare il presidente Clinton, a convocare i presidenti di Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina a Dayton, dove fu siglata una pace e una risistemazione dei confini che avrebbero sancito le nuove entità statali, che si sarebbero aggiunte – in chiave di sovranità e indipendenza – a quelle della Slovenia e della Macedonia, la quale ultima vi era pervenuta già all’inizio del ‘91 in modo del tutto pacifico. Tra queste trovò spazio anche la Repubblica Srpska di Bosnia, una vera mina vagante al centro dei Balcani.

Ma il Trattato di Dayton, a 26 anni dalla firma, mostra tutte le sue corde ormai e suggerisce la necessità di un cambiamento in linea con la realtà odierna, ingessata nella rigida schematizzazione nel governo della Bosnia-Erzegovina che sopravvive nell’immobilismo, frutto di una costituzione che assegna la presidenza del paese pariteticamente alle oligarchie etnopartitiche con inevitabile paralisi. Situazione che ha portato alla recente proposta dello sloveno Jansa di ridisegnare i confini decisi con il Trattato di Dayton secondo criteri etnico/religiosi. Proposta che ha incontrato da subito l’ostilità di Sarajevo che vedrebbe il territorio bosniaco ridursi alla sola componente bosgnacca, non a caso trovando il consenso, invece, di Croazia e Serbia.

Diego Zandel

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