Si può parlare di un Paese parlando, apparentemente, d’altro? Ma certo. Lo dimostra il romanzo della scrittrice turca Sema Kaygusuz “La risata del barbaro”, edito da Voland, nella traduzione di Giulia Ansaldo. Con personaggi azzeccati, ciascuno dei quali ha un ruolo che definirei maieutico, ci porta in una storia che utilizza il comico per introdurci nel drammatico.

Siamo in una località balneare della costa turca sull’Egeo, all’hotel Colomba Blu, con diversi ospiti che trascorrono l’estate tra bagni e attività ludiche, non esclusa la pesca subacquea, aperitivi, colazioni e cene che riempiono i giorni di vacanza. C’è una famiglia tanto numerosa, da riempire tre bungalow, quanto chiassosa, che altri ospiti mal sopportano; c’è una coppia, Eda e Ufuk che si diletta in giochi erotici “in grado di suscitare l’invidia di tutte le altre coppie”, e quindi apparentemente trasgressiva; c’è Turgay (sposato con Nihan) che, forse dietro un’urgenza più psicologica che fisica, si libera orinando una sera dal molo sul mare, non lontano da quattro donne che giocano a carte e commentano il fatto (una delle quali, Dilek, racconterà la mattina dopo a colazione al marito, Faruk, un tipo piuttosto rissoso, l’episodio); c’è poi un’altra coppia, Gülenay e Ömer ai ferri corti, e c’è l’anziana signora Simin, che è lì da sola e usa prendere appunti su un quadernetto, si direbbe un diario, che in parte leggiamo anche noi, come quando scrive della signora Serpil che litiga con il marito Okan e la tata perché hanno lasciato il figlio Ozan, solo con la fiocina a pescare, mentre lei se ne sta al sole ad abbronzarsi; e poi Melih e Ismail, una coppia di gay che si fa passare per due comuni; e poi ancora i camerieri e il giardiniere e così via.

Una mattina però accade di scoprire che qualcuno si sia divertito a orinare su tutta la biancheria di ricambio, lenzuola e asciugamani, per cui si scatena una protesta generale, prima di tutto nei confronti dell’albergo, la cui povera direttrice, signora Ferhan, che non sa capacitarsi del misfatto, deve affrontare l’ira degli ospiti. I quali hanno subito accusato dell’affronto, con spirito tutt’altro che garantista, il signor Turgay, che la sera prima era stato visto tirar fuori il pene dai pantaloni per orinare sulla spiaggia, tanto che il geloso Faruk (“Hai mostrato il cazzo a mia moglie” esagera) non esita ad affrontarlo e a spaccargli il labbro con un pugno, costringendolo, con la moglie, a una temporanea fuga precipitosa. Ma, andato via, il fenomeno continua anche il giorno dopo… l’odore di orina su lenzuola e asciugamani pervade ormai le narici di tutti, per cui il colpevole va trovato altrove e stavolta ad essere additato è il giardiniere, colto, mentre stava innaffiando le aiuole e attratto com’era stato da alcune grida sensuali di vero piacere di una donna, a “guardare attraverso la finestra del bagno, mentre il getto del tubo tra le sue mani continuava senza sosta a inzuppargli le brache”. Quindi, eccitato, incapace di allontanarsi da quella finestra, eccolo tirar fuori anche lui il pene e masturbarsi… A quel punto, chi più colpevole di lui? Una scena che, oltre a provocare il licenziamento del giardiniere, (la direttrice lo liquiderà dicendogli “Ti consiglio di andare al più presto da uno psicologo. Dopo questo scandalo, è fuori discussione che tu rimanga a lavorare con noi”) lo addita al pubblico ludibrio anche per la biancheria. Ma, subito dopo, ecco l’attenzione dell’autrice concentrarsi sulla coppia che aveva attirato l’attenzione del giardiniere, cioè Ufuk ed Eda, dove assistiamo a Ufuk che se la prende con la moglie per la sua sensualità troppo spinta. Il che apre a un capitolo interessantissimo, intitolato “Il clitoride dal lungo strascico” che è esemplificativo, per la reazione e le parole di Eda, della condizione della donna in Turchia, come la vogliono gli uomini, cioè sottomessa fino al punto da non dover mai provare piacere sessuale e, tanto meno, esprimerlo. Nella discussione che nasce tra loro, Ufuk le rimprovera di godere così tanto da dargli l’impressione di fregarsene di lui. “Le dice: “E’ come se mi lasciassi. Sprofondi in un altro universo. Come se la tua bocca parlasse con qualcun altro. (…) Mentre ti guardo, mi sembra che mi manchi qualcosa. (…) Dentro di me dico: amore, ma non si può godere così tanto, ora basta, dài”, quasi volendole farle capire, per questo, di essere una puttana: “Da quanto dici, d’altronde, t’intrattieni meravigliosamente con uccelli e compagnia”. La risposta, straordinaria, di Eda non si farà aspettare: avevo tre anni, gli dice, quando mio fratello nel vedere che non avevo il “pipino”, ha vissuto nel terrore di fare la stessa fine, e quindi nel terrore della castrazione, così, ben presto, come tutti i maschi, relegando lei e le donne in genere a essere inferiore.  Eppure, proclama, è dalla vagina che si viene al mondo. “Che scherzo diabolico!” dice Eda al marito “Senza vagina io non sarei nato, ma se somiglio a quella vagina mi cadrà il pisello. Il paradosso più stupido di questa terra. L’origine di questa civiltà predatoria! Che fare allora? Trattiamo la donna come una creatura mutile cui è stata amputata la mascolinità, così da squarciare facilmente la sua devastante alterità. Dimentichiamoci la follia che è la vagina, e appena partorisce releghiamo la donna dritta dritta al ruolo di madre. Prima rendiamo schiave le donne, poi gli uomini deboli…”. Ma il discorso che Eda fa si amplia, una reazione che è un’arringa contro il potere degli uomini e in difesa dei diritti delle donne alla sessualità, che arriva a toccare temi più strettamente sociali in una consequenzialità di ragionamenti che meritano attenta lettura.  Non senza provocazioni: “Sei risentito perché godo più di te. Tutto il mio corpo freme mentre facciamo l’amore. Il clitoride pulsa. Il seno diventa più sensibile. A volte, quando non riesco a controllare il respiro, ho i crampi ai piedi. Anche il culo viene solleticato, se vuoi saperlo! Passo da uno stato all’altro. Quando ti mordo la spalla ho la bocca allappata…” E lui: “Abbassa la voce, per favore, ti ascoltano tutti…”.

Certamente li ascolta Selçuk, il cameriere che li serve a tavola e che la sera, rientrato nella foresteria dell’hotel dove ha una camera che condivide con un altro cameriere, Alikâr, si trova con lui a discettare su Dio, un dialogo serrato tra loro che mette in campo tutto e il contrario di tutto in una dimensione mistica e ridicola insieme (Tutti sognano. Io, per esempio, ho sognato l’ombelico di Eda… Speriamo di averlo solo sognato”) dove timore di commettere peccato, salvezza eterna e rispetto del Corano, di cui nel dialogo si citano alcune sure, si mescolano nel tentativo di dare un senso alla vita.

Ma, sempre da situazioni generate dall’increscioso caso dell’orina che, nonostante il licenziamento del giardiniere, continua a imperversare, ecco che altri ospiti ancora vengono presi di mira o, comunque, a essere sospettati. C’è chi azzarda: “Sono sicurissimo che sono stati quei due froci”, riferito alla coppia gay, Melik e Ismail, che naturalmente vengono isolati; e dopo loro, altri ancora… Una di questi è l’anziana signora Semin, sulla quale anche aleggia l’ombra del sospetto per il vederla sempre con quel suo taccuino in mano. Che cosa scrive? Soprattutto quando si viene a sapere che il suo lavoro ha a che fare con la medicina? Che ci sia una qualche relazione tra il suo essere medico e quello che accade? Ma, interrogata, la signora Semin precisa di essere una storica della medicina, non un medico. Ma altre domande l’incalzano. Le si chiede da dove viene, e lei racconta di non sapere dove è nata, che, piccolina, con sua sorella fu messa in una valigia e portata in salvo da uno dei pogrom dei tanti fatti dai turchi. Al che, ecco scattare tra gli ascoltatori il nazionalismo. Prima cercando di capire a quale pogrom si riferisse la vecchia, ma sono così tanti e così incerta l’età della donna da avere solo l’imbarazzo della scelta sulla persecuzione da scegliere. È sufficiente l’argomento per far scaldare gli animi. Così assistiamo a una discussione a tavola dove Gülenay, e subito dopo suo marito, entrambi critici nei confronti del nazionalismo turco, si vedono rispondere da un commensale, ovviamente rivolto all’uomo: “Ma lo sai tu, quanto è difficile essere turchi? E prima l’indipendenza ai curdi, e poi il genocidio degli armeni, ora l’ultima moda è il massacro di Dersim! Non passa giorno che non ci diano degli assassini. Certo, nessuno racconta le atrocità patite dai turchi migrando dai Balcani. Ecco cos’è la frociaggine”. In questo caso rivolgendo lo sguardo ancora ai due gay.  “Ah sì?” fa l’altro “Allora, se è per questo, sono frocio anch’io, amico! Finora quale diritto avrebbe difeso il tuo caro Stato? Questo Stato perfido ha messo i vicini gli uni contro gli altri, e tu lì a starnazzare. Non riesci a essere turco senza trovarti un nemico!”.

Una situazione questa, più in generale, che vede la disperata direttrice passare da uno all’altro degli ospiti rimasti, offrendo sconti, cene speciali, una generosa serata di gioco al bingo ed altro, sempre confidando in una comprensione che, in realtà, si traduce in una generale spinta, da parte di tutti, ad approfittare dell’occasione per scroccare il più possibile. 

“La risata del barbaro” di Sema Kaygusuz è piena di queste chicche che, trasversalmente, con pochi elementi, direi quasi teatrali, riesce a darci uno spaccato della Turchia più di tanti saggi, capace com’è il racconto, nella sua sottigliezza, di penetrare il nocciolo della realtà per tirarne fuori l’anima. Sta al lettore poi andare oltre la superficie, di per sé comunque divertente della storia, per saper cogliere la metafora profonda che questa racchiude.

Diego Zandel

Sema Kaygusuz, La risata del barbaro, Voland, pag. 173, €. 16,00

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