Il 6 aprile 1941 inizia, con l’Operazione castigo, l’aggressione al Regno di Jugoslavia (nato nel 1929 dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, sorto dallo smembramento dell’impero austro-ungarico dopo la Grande Guerra) con il bombardamento della capitale Belgrado (che causa oltre 10mila morti) e l’invasione da parte delle truppe tedesche, italiane, bulgare ed ungheresi.

Dopo appena dieci giorni, il 17 aprile, il Regno di Jugoslavia si arrende ed il suo territorio è spartito tra i vincitori. La  Germania nazista occupa la Serbia e la Slovenia settentrionale. L’Italia fascista occupa la Slovenia meridionale, con il capoluogo Lubiana, la Dalmazia e le regioni confinanti con la Albania (che l’Italia ha annessa il 16 aprile 1939, dopo una guerra durata appena due settimane) e parte del Kosovo. La Bulgaria occupa la Macedonia e l’Ungheria la regione di Novi Sad. La Slovenia meridionale è annessa al Regno d’Italia formando la provincia di Lubiana, in violazione del Diritto internazionale, che non ammette l’annessione dei territori occupati nel corso di una guerra, prima della stipula del trattato di pace. Gli abitanti sloveni, circa 350mila, sono subito assoggettati alla “italianizzazione forzata”, già attuata nei confronti della popolazione slovena e croata (circa 500mila persone) dei territori della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia annessi con il Trattato di pace di Saint Germain en Laye (Parigi) del 10 settembre 1919, che ha concluso la Grande Guerra.    

Inoltre è costituito lo stato indipendente di Croazia, un regno fantoccio dei nazifascisti, che ha come re Aimone di Savoia, nipote di Vittorio Emanuele III, e come capo del governo l‘ustascia filonazista Ante Pavelic. 

Le truppe naziste, fasciste e bulgare invadono in seguito la Grecia (contro la quale l’Italia ha già iniziato la guerra il 28 ottobre 1940, trovando una forte resistenza), la cui capitale Atene è occupata il 28 aprile. Anche la Grecia viene spartita tra la Germania, l’Italia e la Bulgaria. Il nostro Paese occupa la Tessaglia, il Peloponneso, l’Attica, le isole Cicladi e Sporadi, Cefalonia e Corfù. Gli sloveni ed i croati iniziano subito la resistenza armata contro la nostra occupazione e quindi le autorità militari adottano “drastiche misure repressive”, che diventano sempre più cruente. 

Il primo marzo 1942 il generale Mario Roatta, comandante della II Armata, di stanza nella provincia slovena, emana la Circolare 3C, che prevede l’incendio anche di interi villaggi nelle zone in cui sono presenti i partigiani (chiamati “ribelli” dalle nostre  autorità militari), per togliere a essi il sostegno della popolazione. Così, oltre 250 villaggi sono distrutti e gli abitanti sono deportati in appositi campi di internamento, allestiti prima dalle autorità militari in Slovenia e poi dal Ministero dell’Interno nel nostro Paese, nei quali sono internati oltre 100mila civili, considerati “pericolosi”, anche se sono in massima parte di anziani, donne, ragazzi e bambini, perché gli uomini adulti sono in clandestinità e militano nella resistenza. Al riguardo ricordiamo i campi di internamento di Gonars (Udine), di Renicci (frazione di Anghiari, in provincia di Arezzo) e l’isola croata di Rab (italianizzata in Arbe), nella quale sono internate oltre 20mila persone, quasi tutti anziani, donne, ragazzi e bambini, molti  dei quali muoiono per le epidemie e gli stenti. Vedendo le foto (che si trovano in rete) degli internati ad Arbe, molto dimagriti, si pensa che sono gli internati in un campo di sterminio nazista.   

La Circolare 3C dispone anche la fucilazione degli ostaggi. 

Il principio adottato da Roatta nella repressione è quello della “testa per dente”, cioè alla guerriglia dei partigiani si deve rispondere con una repressione spietata, allo scopo di  incutere terrore nella popolazione e costringerla a non appoggiarli. In seguito, il generale Mario Robotti, successore di Roatta, va oltre a quanto stabilito nella Circolare 3C e sostiene che “si ammazza troppo poco” ed in una Circolare scrive: “A qualunque costo deve essere ristabilito  il dominio ed il prestigio dell’Italia, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e dovesse essere distrutta la Slovenia”. La Circolare è un chiaro provvedimento razzista perché si afferma chiaramente che gli sloveni possono anche “sparire”, cioè possono essere tutti eliminati. Peraltro, gli slavi (di cui gli sloveni fanno parte) sono considerati dai nazisti “esseri inferiori”, che devono essere utilizzati come schiavi, e quindi sono ad un livello appena superiore a quello degli ebrei, che devono essere eliminati.    

La popolazione jugoslava paga un prezzo altissimo nei quattro anni di guerra (1941-1945): oltre un milione e mezzo di persone (il 10% della popolazione), in maggior parte civili inermi, sono eliminati, spesso brutalmente. Le atrocità commesse in Jugoslavia sono esposte nella mostra fotografica “A ferro e  fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943”, curata dallo storico Raul Pupo e realizzata dal Dipartimento di Scienze politiche e storiche dell’Università di Trieste, che è stata inaugurata di recente nel capoluogo friulano.        

Per il risarcimento dei danni di guerra, il nostro Paese è stato condannato, in base alla Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, a pagare 125 milioni di dollari alla Jugoslavia, 105 milioni alla Grecia e 100 milioni alla Unione Sovietica. Pertanto, è chiaro che la Jugoslavia ha subito da parte nostra i danni maggiori durante il conflitto  mondiale.

Inoltre molti nostri comandanti militari hanno commesso crimini di guerra ed è stata richiesta nel dopoguerra la loro estradizione, per essere giudicati, dai vari Paesi in cui i crimini sono stati commessi, in primis dalla Jugoslavia. Però nessuno è stato estradato e neppure processato e condannato in Italia. Quindi nessuno ha pagato per i crimini di guerra commessi perché il nostro governo ha scelto di adottare il principio della “reciprocità”: l’Italia avrebbe concesso l’estradizione dei nostri ufficiali accusati di aver commesso crimini di guerra, se, per esempio, la Jugoslavia riconosceva le propria responsabilità nelle foibe del 1945. Inoltre, si è anche scelto, per motivi politici, di non chiedere alla Germania (perché diventata nostro alleato nella Nato) l’estradizione degli ufficiali nazisti responsabili di molte stragi compiute ai danni della nostra popolazione nel territorio occupato dal settembre 1943 all’aprile 1945, perché altrimenti il nostro Paese avrebbe dovuto necessariamente concedere l’estradizione dei nostri comandanti ai Paesi dai quali erano accusati di aver commesso crimini di guerra. 

Così nel 1951 la nostra Procura militare ha archiviato “provvisoriamente” 695 fascicoli, relativi alle stragi naziste, in un armadio con le ante rivolte verso il muro (chiamato in seguito “armadio della vergogna”),  che solo a metà degli anni Novanta è stato aperto. I crimini di guerra compiuti dalle nostre truppe nei Paesi occupati durante il secondo conflitto mondiale sono conosciuti solo dagli storici. Lo stesso vale anche per le brutalità compiute nelle nostre colonie africane, soprattutto in Libia ed in Etiopia , dove sono stati usati anche i gas asfissianti, proibiti dalla Convenzione di Ginevra, per reprimere brutalmente la resistenza alla nostra occupazione.

La nostra popolazione non sa quasi nulla di tutto questo. Anche nei libri di storia per le scuole medie (anche superiori) non è scritto nulla. 

I motivi di questa “rimozione collettiva”, che alcuni hanno chiamato “congiura del silenzio”, sono molteplici. Innanzitutto ha fatto comodo attribuire al fascismo non solo la responsabilità dei crimini commessi nella seconda guerra mondiale (che è stata una “guerra di conquista”), ma anche quelli compiuti in precedenza sia nella guerra per la “riconquista” della Libia, soprattutto della Cirenaica, dove la resistenza alla nostra occupazione, guidata da Omar al-Mukhtar, il “leone del deserto”, è durata un decennio (fino al 1932), sia nella guerra di Etiopia. Inoltre è scomodo psicologicamente ricordare una guerra “combattuta dalla parte sbagliata e persa”, come è stato il conflitto mondiale. Quindi tutto si deve dimenticare. Però è molto diffuso nell’immaginario collettivo il mito del “bravo italiano”, che si è comportato bene nella guerra.

Però, a distanza di 80 anni dall’invasione della Jugoslavia (ed anche della Grecia e della Russia, avvenute sempre nel 1941) è opportuno fare una riflessione, tirando fuori gli scheletri dall’armadio, con il riconoscimento da parte del nostro governo democratico delle responsabilità del passato, peraltro commesse dal regime fascista, anche chiedendo perdono alle molte vittime che abbiamo causato. In questo modo i rappresentanti delle nostre istituzioni dimostrerebbero serietà e coraggio e potrebbero partecipare a testa alta alle riunioni degli organismi internazionali.

A questo scopo mira l’appello promosso dallo storico Eric Gobetti e firmato da altri 150 docenti universitari. 

 Giorgio Giannini

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