Riprendendo la promessa che ci siamo fatti nell’introduzione a questa rubrica incomincio a pensare ai nostri ultimi due anni. Paiono il gioco dell’oca: apri, chiudi, dentro, fuori, zona rossa, gialla, bianca. I numeri delle terapie intensive come la moneta pizzicata per decidere chi inizia la partita: se esce testa regione ancora aperta, se esce croce coprifuoco alle 22. 

Le speranze familiari raccolte la domenica intorno al tg delle 20, il momento in cui verrà annunciato il colore di cui si vestiranno le nostre vite.

I lockdown ci hanno costretti in spazi indesiderati, momenti in cui il pensiero era fermo e sembrava intrappolato, schiavo delle limitazioni fisiche imposte. E se allora veramente vogliamo e necessitiamo di andare oltre quegli spazi fisici credo che uno strumento sia quello delle utopie

Lo sostengo perché riprendendo il significato letterale del termine scopriamo che si tratta da un lato di non-luoghi (ou-topos) e dall’altro di buoni luoghi (eu-topos). Le utopie sono località immaginarie, prodotti di un esercizio mentale attraverso il quale esercitiamo tre funzioni: mettiamo in discussione il sistema esistente, evidenziandone le sue criticità, immaginiamo, creiamo e comprendiamo una realtà differente, costruendola nei ragionamenti e dunque rendendola possibile nella realtà, e ultimo fissiamo un obiettivo ideale verso cui tendere, ovvero la leva prima dell’azione non razionale. 

Le utopie possono realmente diventare un buon esercizio d’immaginazione declinato secondo l’impegno politico – intendendo il politico come pubblico, aperto, impattante sulle vite proprie e altrui.

Per me la migliore utopia, prima di addentrarmi nei meandri della tecnica sociologica, è il paradosso immaginato da Camus in Caligola, opera il cui sottofondo è caratterizzato da morte e infelicità, la cui tensione sta tra il delirio del potere e il sogno concreto delle verità. 

La scena che sto per riportare, che a mio parere è un buono scudo dalle lance dell’infelicità, viene introdotta da un Caligola stanco, sporco, smarrito. Il protagonista è la metafora della nostra condizione mentale dell’ultima manciata di mesi: i capelli madidi di pioggia e le gambe impillaccherate, ci dice l’autore. Se lo immaginassimo oggi affermeremmo che le privazioni grondano dalla sua capigliatura e l’insoddisfazione risalta a chiazze sulle sue gambe oscene. 

Albert Camus Caligola, Bompiani

Elicone: Buon giorno Caligola.

Caligola: Buon giorno Elicone.

Elicone: Sembri affaticato.

Caligola: Ho camminato molto.

Elicone: Sì, la tua assenza è durata a lungo.

Caligola: Era difficile da trovare.

Elicone: Che cosa?

Caligola: Ciò che volevo.

Elicone: E che volevi?

Caligola: La luna.

Elicone: Che?

Caligola: La luna. Sì, volevo la luna.

Elicone: Ah, e per fare cosa?

Caligola: È una delle cose che non ho.

Elicone: Sicuramente. E adesso è tutto a posto?

Caligola: No, non ho potuto averla. Sì, ed è per questo che sono stanco. Tu pensi che io sia pazzo.

Elicone: Sai bene che io non penso mai. Sono troppo intelligente per pensare.

Caligola: Sì, d’accordo. Ma non sono pazzo e posso dire perfino di non essere mai stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti.

Elicone: È un’opinione abbastanza diffusa.

Caligola: È vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com’è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell’immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo.

Elicone: È un ragionamento che sta in piedi. Ma, in generale, non lo si può sostenere fino in fondo, non lo sai?

Caligola: È perché non lo si sostiene mai fino in fondo che non lo si sostiene fino in fondo. E non si ottiene nulla. Ma basta forse restare logici fino alla fine.

Elicone: Io so ciò che pensi. Quante storie, per esempio per la morte di una donna.

Caligola: No, Elicone, non è questo. Mi sembra di ricordare, è vero, che alcuni giorni fa è morta una donna che io amavo. Ma cos’è l’amore? Poca cosa. Questa morte non è niente, te lo giuro. Essa è solo il segno di una verità che mi rende la luna necessaria. È una verità molto semplice e perfettamente chiara, un po’ stupida forse, ma difficile da scoprire e pesante da portare.

Elicone: Ma, in fin dei conti, qual è la verità, Gaio?

Caligola: Gli uomini muoiono e non sono felici.

E quindi? Camus ci offre una prospettiva poetica e politica, intrisa di sogno e pragmatismo. L’utopia immaginata come strumento di razionalità, il bisogno di impossibile come molla per agitare una generazionale monotonia stagnante. Da un lato arresi alla società del benessere e alle sue conseguenti catastrofi, dall’altro annientati da due anni di noia e apatia. Molti danno l’impressione di assomigliare ai cenci sgualciti che anche i più oculati butterebbero via. 

Non facciamo l’errore improprio di mettere in relazione le limitazioni psico-sociali del Covid-19 con le conseguenze catastrofiche di una guerra. Sicuramente saremmo stonati, altrettanto certamente staremmo curando una polmonite con l’aspirina. I due fatti sociali non c’entrano nulla, ma continuare a sottovalutare la portata psicologica della pandemia, nascondendosi dietro la foglia di fico del “i tuoi nonni avrebbero pagato per rimanere a casa”, rischia di creare un’isteria generale in cui il paziente si aggrava e il medico rifiuta di svolgere la diagnosi.

La medicina di cui necessitiamo è una spinta ideale, che sono convinto si nasconda lì, nell’isola di Thomas More.

Nicolò Milanesio Arpino

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