Le utopie come strumento psicosociale di ripresa? La risposta è si.

Le utopie distolgono le persone dalla tragedia della monotonia. E rilanciano l’antagonismo politico nel suo significato più alto di stimolo alle istituzioni e ossigeno della dialettica democratica.

Ma come si costruiscono socialmente le utopie? Che significati generano e che cosa sono?

Ci sono luoghi che non hanno una cronologia e una collocazione definita su una carta geografica, pur certamente possedendo una storia. La questione che distingue questi luoghi dagli altri è la loro non presenza (che etimologicamente si differenzia da assenza) in uno spazio fisico, poiché in quello ideale certamente esistono.

Michel Foucault ci direbbe che questi spazi nascono “negli interstizi delle parole”, nel colore dei sogni, acquisiscono importanza per le esperienze di vita che li hanno attraversati, per le narrazioni che li hanno costruiti e per i significati che rappresentano. Questi luoghi, come tentavamo di dirci nella scorsa puntata, sono le utopie.

La certezza sociale che abbiamo, che è proprio la contraddizione del concetto e ciò che lo rende affascinante, è che questi luoghi, pur senza poterli conoscere, sapremmo con certezza identificarli. Con date, luoghi fisici, spazi più ampi che fanno migrare la nuvola di punti e considerazioni ad un recinto concettuale preciso, definito e collocabile. Pur essendo diversificati il processo di costruzione che mettiamo in atto dà forma a un unico pensiero. Strano, no?

1968 basta la parola…

Pensiamo alle rivolte sessantottine. Mentre preparavo questo articolo mi sono sommariamente confrontato con amici testimoni diretti e indiretti di quel momento. Singolarmente notavo che nelle parole di tutti ritornavano come una cantilena queste immagini.

Le piazze di Parigi rappresentate sublimemente da Bernardo Bertolucci in the dreamers, le parole di Pier Paolo Pasolini rispetto agli scontri di valle Giulia, le fotografie degli scioperi milanesi, il gesto estremo e straziante di Jan Palach in piazza Venceslao. Insomma, una parola, “sessantotto”, per scatenare in tutti i miei interlocutori un ideal-tipo definito. Lo studente universitario con l’eskimo, i capelli lunghi e in sottofondo le musiche delle marce libertarie.

Nel processo di classificazione che mettiamo in atto siamo in grado di identificare chiaramente le persone e le idee che appartengono al substrato culturale intorno alla definizione di cui parliamo.
Il fenomeno sessantotto possiede alcune caratteristiche tipiche di tutti i movimenti idealistici (utopici, per rimanere in tema).

Ha elementi propri che gli hanno consentito di ottenere un’adesione massiccia, rappresenta un momento di aggregazione per chi vi ha partecipato. Inoltre mette in atto processi di identificazione e distacco e come gran parte momenti che vedono in azione gruppi organizzati possiede riti di affiliazione.

Ma la caratteristica che più di tutte ci interessa prendere in considerazione non è questa. E’ il fatto che l’elemento primordiale che sta alla base di tutte le caratteristiche è quello dell’utopia. La scintilla che ha spinto le persone ad unirsi e condividere esperienze, strategie, foss’anche tempo libero. Per quanto si voglia leggere le situazioni sociali con una lente realista l’elemento utopico, ideale, rappresenta l’amalgama del beverone sociale che impegna le persone.

Le utopie che aggregano i gruppi sociali

L’utopia si rivela elemento aggregatore per almeno quattro gruppi sociali. Chi partecipa da protagonista agli eventi, che altrimenti non avrebbe modo di sentirsi parte di un progetto più grande, trovando una ragione materiale per spendersi per una determinata causa di cui i risultati nella migliore delle ipotesi sono intangibili. E nella maggior parte dei casi irrealizzabili.

Lo è altrettanto per coloro che in antitesi a quel gruppo costruiscono la loro ideologia. E chi per contrarietà a un’idea forma la propria utopia-ideologia, la sua azione strutturata. Aggiungiamo un mattone alla casa che andiamo costruendo: l’utopia ha una funzione generatrice, da un’idea ne nasce un’altra.

Utopie simbolo di riconoscimento per gli idealisti

Infine è il simbolo di riconoscimento per chi intende studiare, parlare, scrivere degli idealisti. Gli olivettiani, i marxisti, i sessantottini. Tutte categorie di per sé fluide, non precisamente riconducibili né a un’epoca storica temporalmente definitiva né tantomeno a un’unica chiave interpretativa.

Tuttavia queste definizioni classificatorie consentono di collocare in un preciso spazio del pensiero le persone che fanno parte di queste utopie. La riconoscibilità sociale è il suo elemento più vivo. Il dubbio rimane lo stesso almeno dall’inizio del secolo breve. Che fare, aggiungo io, di questo potenziale socialmente definito?

Nicolò Milanesio Arpinio

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