Si sente ripetere che la crisi di governo in corso non si capisce. Che non la capiscono gli italiani, le cancellerie d’Europa e del mondo. A ben guardare, però, le ragioni della crisi sono più intellegibili di quanto lo fossero quelle per le quali il governo è nato. La confusione che percepiamo è solo l’effetto di una narrazione ipertrofica, senza riferimenti storici e concettuali, che i media sospendono tra descrizione spasmodica di dettagli insignificanti e interpretazioni personali basate su esperienze non sempre generalizzabili. Il “circo mediatico”, così, si sforza di rinchiudere lo spettacolo della crisi nella sfera dell’eccezionale, affinché lo stupore giustifichi anche il racconto dell’ultimo colpo di tosse esploso in nottata dall’ignoto “costruttore”.
Si può capire facilmente la crisi se non si perde di vista il quadro d’insieme per inseguirne una rappresentazione parcellizzata. Il caleidoscopio narrativo ambisce ad attribuire le cause della caduta del governo ad un unico esclusivo fattore scatenante. Di solito quello più vantaggioso per chi in quel momento prende la parola: l’inerzia dell’azione di governo, oppure le ultime convenienze politiche del partitino, oppure la gestione inefficace della crisi sanitaria, oppure le divergenze sul MES, oppure le idiosincrasie caratteriali dei protagonisti. La personalizzazione dello scontro è la traccia riempipista suonata dai “pesi massimi” alla consolle della narrazione pubblica, ma è anche la più sbagliata. Se davvero qualcuno non capisce perché sia caduto il governo – e comunque non credo sia così per i più – è soprattutto perché la crisi è troppo spesso presentata come una questione privata tra i protagonisti. O peggio, in chiave di noir psicologico. Quando invece è lampante che siamo al cospetto una crisi di sistema, nella quale i personalismi sono questioni di sfondo.
Questa crisi ricorda le fasi più inerti della Prima Repubblica. Con l’aggravante dell’indebolimento strutturale del ruolo dei partiti (non più ciò che erano, né ancora ciò che potrebbero e dovrebbero essere diventati) chiamati dalla Costituzione a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». E senza tutto il portato ideologico che funzionava come cemento sociale in una società aggregata quasi in forma monolitica intorno a pochi interessi di classe. L’attuale Terza Repubblica è quindi diversa dalla Prima per il contesto che la determina, ma analoga nelle dinamiche politiche che produce: quelle tipiche del consociativismo. Ora però ci ritroviamo una democrazia consociativa senza partiti solidi, né sul piano culturale, né organizzativo, che ad altro non può ridursi se non ad una guerra fra bande.
Proprio qui, nel deserto culturale di ciò che resta dei partiti, prende forma e si consolida l’ossessione per un nemico, rassicurante come l’amico immaginario per un bambino che abbia paura del buio. Si potrebbe scrivere una storia delle ossessioni nella politica italiana che hanno funzionato come movente politico collettivo a fronte di una strutturale debolezza ideale e di orizzonte: quelle della nascente destra forzista per il comunismo che era già morto, quella della sinistra per Berlusconi, per Salvini e per Renzi, quelle del grillismo per l’Altro da sé come categoria del Male.
All’interno di uno scenario esasperato, nevrotico e narciso come quello attuale, le dinamiche politiche tipiche in un parlamentarismo costruito con una legge elettorale di fatto proporzionale diventano esasperate, nevrotiche, e narcise, ma restano un prodotto del sistema di voto che le genera. Nell’attuale contesto partitico, il frazionismo tipico del proporzionale non è una risorsa che pluralizza la rappresentanza, che anzi mai è apparsa tanto chimerica, ma piuttosto un fattore strutturale di potenziamento dei particolarismi che la indeboliscono. A differenza di un tempo, infatti, l’attuale sistema democratico fatto di non-più-partiti che non sono ancora qualcos’altro non consocia. O meglio, può assicurare un consociativismo di forma, ma pressoché mai di sostanza. Ecco perché la politica si affanna alla ricerca di alternative funzionali al compromesso per consentire quel po’ di anelata stabilità di governo: i “punti condivisi”, i “contratti” di governo, nell’attesa dei prossimi “post-it” programmatici.
Alla fine, a volerla proprio capire, la crisi di governo si capisce benissimo. È l’affermazione squisitamente politica della visione più o meno condivisa – ma legittima – di una parte, il potere della quale le è conferito da un sistema che valorizza le frazioni rispetto al tutto. Il riflesso di una più ampia e profonda crisi del sistema partitico che oggi ha questi protagonisti, che domani ne avrà degli altri, ma sempre con lo stesso copione. L’esperienza mostra che, nel contesto italiano, il sistema elettorale a doppio turno, meglio se maggioritario, può meglio consentire un’efficienza di governo che è oggi un’aspettativa non più eludibile.
Cristopher Cepernich