Ho appreso con grande ritardo della morte due anni fa, a 92 anni, di Frank Horvat, che è stato uno tra più grandi fotografi al mondo, con sue foto esposte anche al Moma di New York.

Nato ad Abbazia il 28 aprile del 1928, apparteneva a una grande famiglia ebraica. Io lo conobbi agli inizi degli anni Duemila, per caso. Avevo letto di lui su una rivista un servizio che lo riguardava e mi aveva colpito proprio il fatto che fosse nato ad Abbazia, la cittadina a una manciata di chilometri da Fiume, la mia città d’origine, che io sono solito frequentare. Il mio interesse per lui aumentò di colpo. L’articolo riportava anche il link del suo sito www.horvatland.com e, con la scarsa speranza di avere una risposta, gli scrissi, presentandomi come scrittore di origine fiumana. Con mia grande sorpresa mi rispose. Da quel momento cominciò tra noi una fitta corrispondenza e l’idea di organizzare ad Abbazia una sua mostra di fotografie. Nel frattempo, mi diede notizie sue personali: volevo sapere dei suoi ricordi della cittadina quarnerina.

“Non ho buoni ricordi per tanti motivi…”

Resterai deluso” mi rispose. “Non ho buoni ricordi, per tanti motivi. Il principale è dovuto all’infanzia poco felice. Mio padre Karl e mia madre Adele Edelstein, entrambi medici, il primo pediatra, la seconda psicanalista, litigavano sempre. E, infatti, poi si divisero. Inoltre, quello era il periodo fascista, bisognava parlare italiano e noi eravamo di lingua tedesca. E poi eravamo ebrei e le leggi razziali emanate da Mussolini furono un motivo in più per andare via. Lasciai Abbazia nel 1939, all’età di 11 anni, per trasferirmi a Lugano, in Svizzera, dove vissi finché, dopo la guerra, potei tornare in Italia, a Milano, per studiare disegno all’Accademia di Brera.

Allora hai cominciato con il disegno, non con la fotografia?

“Il mio motto lo sai qual è? La fotografia è l’arte di non premere sul bottone. Ha molto a che fare con lo sguardo, con lo stato d’animo. Saper cogliere il soggetto attendendo il momento: di luce, di situazione, di intimità, in cui tu prendi il suo pieno possesso. Potrei dire che prendere una foto è un po’ come rispondere a un appello. Come se una persona, un albero, una situazione mi dicesse: io voglio essere visibile e tu sei colui che mi dà questa possibilità. E mentre rispondo a questo appello, mi carico di energia, in attesa che l’immagine prenda forma.”

E il disegno non ti dava questa, come dire, emozione?

“Non mi dava l’opportunità di cogliere quello che Cartier-Bresson ha chiamato l’istante decisivo. Anche se per me è spesso un insieme d’istanti, di cui certi sono più decisivi di altri. Ma poi, in realtà, accade che tu segui solo la tua passione. E le risposte che spieghino questa passione le dai dopo. Ti posso dire che all’età di 15 anni io scambiai la mia collezione di francobolli con un apparecchio 35 mm Retinamat. E a 21 anni acquistai un apparecchio Rolleicord, cominciando a fare, come fotografo indipendente, delle foto per alcune riviste. Poi a 22 anni conobbi a Parigi, dove mi trasferii per la prima volta nel 1950, Henry Cartier-Bresson e Robert Capa. Il mio destino, a quel punto, era deciso.”

Come li incontrasti?

“Li incontrai alla Magnum, la celebre associazione di fotografi. Cartier-Bresson era considerato una sorta di guru, sebbene lui non accettasse questa definizione, anche se è un fatto che egli concepiva la fotografia, e un po’ meno il fotogiornalismo, come una specie di religione. Inutile dirti che di questa religione io divenni subito un credente, anche se più tardi fui considerato un eretico… Ma gli eretici possono essere i più grandi credenti.”

Però, intanto, ti ha influenzato

“Sì e no. Nel senso che lui aveva delle regole. Mai usare la luce artificiale, specialmente il flash; mai reinquadrare il soggetto; mai intervenire con delle direttive alle persone che si stanno fotografando… Ecco, io non credo che la giustezza delle fotografie dipenda da queste regole, anzi, in certi casi sono vere le regole opposte. La sua influenza, più che dalle sue regole, mi è venuta dalla sua personalità, dal suo modo di intendere la professione, di essere. In questo senso, penso di potermi assimilare a quel musicista che ha cominciato ad essere tale amando Bach, è poi è diventato un migliore musicista di jazz. Così vedo il mio rapporto con Cartier-Bresson… Ma sono stati anche altri a influenzarmi.”

Chi?

August Sander e Irving Penn”.

Presentaceli, ti prego

August Sander per me è il più grande dei ritrattisti. Ha fotografato i suoi connazionali tedeschi tra gli anni Venti e Trenta. Tutte le sue foto hanno un marchio suo, personale: la composizione, la luce, le espressioni. E nello stesso tempo egli non impose mai un giudizio sulle persone, sulla loro realtà, come per una sorta di rispetto per la dignità dell’altro.”

E Irving Penn?

“Mi ci è voluto del tempo per rendermene conto, anche perché io sono lontano dai suoi soggetti e non utilizzo la stessa tecnica. Ma ammiro il suo senso di dignità, il suo straordinario rispetto per tutto ciò che appare al suo obiettivo. Dico questo perché tu sai che la fotografia implica una certa mancanza di rispetto: si tratta di ridurre la realtà vivente di una persona a un’immagine bidimensionale e immobile. Qualche volta mi chiedo cosa potrebbero dire le persone delle epoche passate, se potessero sfogliare le pagine di Vogue. Si scandalizzerebbero sicuramente dei loro pronipoti, per tutte quelle bocche e quelle gambe spalancate.

Le sole immagini che potrebbero riconciliarli sarebbero delle foto come quelle di Irving Penn per illoro eispetto della dignità umana. E così le foto di Sander e dello stesso Cartier-Bresson. Mi pare che per tutti, e mi metto tra essi, ci sia un comun denominatore: il rispetto di se stessi e di chi si fotografa. E questo è tanto più meritorio quanto più la fotografia si presta alla possibilità di manipolazioni. Ciò non significa che noi non procediamo a delle manipolazioni, tutti le fanno, ma c’è maniera e maniera di usarle. E ciò dipende dalla coscienza che si ha della loro conseguenza e del loro significato.”

É straordinario che tu dica questo, considerando il fatto che sei un fotografo non classificabile. Non ti si può racchiudere nel fotogiornalismo che hai praticato dagli anni Cinquanta con i tuoi viaggi in Pakistan e in India, per Life e Picture Post; né in quello di moda, per i tuoi servizi per Jardin Des Modes, Elle, GLamour, Vogue, Harper’s Bazar, né in quella di fotografo di pubblicità, per aver lavorato in questo campo in Europa e negli Stati Uniti… Qualè il filo rosso che lega tutto ciò, che fa di te il Frank Horvat che conosciamo?

“Ma il filo rosso è la mia vita. All’età di 30 anni io avevo già vissuto e lavorato in sette paesi differenti. L’Italia, la Svizzera, la Francia, il Pakistan, L’India, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, parlando correttamente le lingue di questi paesi, fatta eccezione per l’Urdu e lo Hindi. Sicuramente le circostanze hanno determinato le mie scelte. In ogni paese in cui vivevo e per ogni lingua in cui parlavo, io scoprivo una nuova forma di essere, cioè di essere me stesso. A queste maniere di essere corrispondono i periodi della mia fotografia, periodi non solo temporali, perché io continuo ad alternare entro le forme della fotografia direttiva o non direttiva, entro il bianco e nero o il colore, entro la fotografia tradizionale o digitale, così come, di volta in volta, alterno le differenti lingue.

Con te parlo e scrivo in italiano, con mia moglie e i miei figli in francese, con i miei genitori, quando erano ancora viventi, e con il mio nipote Malte, che vive in Germania, in tedesco. Così come ho parlato diverse lingue con gli amici fotografi, da Boubat a Newton, da Giacomelli a Hiroshi Hamaya, e altri otto tra i più significativi, nelle interviste sulla fotografia che ho scritto per il libro Entre Vues. Proprio da questa alternanza di temi e tecniche è nato il desiderio di realizzare una mia retrospettiva, anche se di solo 75 fotografie, come è stato a Tolone e, come spero, si farà, grazie al tuo impegno, il prossimo anno nella mia città natale di Abbazia. A Tolone il risultato, anche per la risposta della critica e del pubblico, credo che il risultato sia stato ottimo. Dalla retrospettiva credo che emerga bene il quadro unitario di quella che è la mia personalità artistica e che ben si sintetizza nel motto che ti ho detto all’inizio di questa intervista. Solo che ora te lo dico in francese: La photographie c’est l’art de ne pas presser le bouton.”

Diego Zandel

Immagine tratta da www.horvatland.com

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