Il 12 giugno, insieme alle elezioni amministrative, si voterà su cinque referendum in tema di giustizia, promossi da Lega e Radicali e ammessi lo scorso 16 febbraio dalla Corte costituzionale. Gli italiani dovranno esprimersi su 5 quesiti: custodia cautelare, separazione delle carriere dei magistrati, elezione del Csm, consigli giudiziari, incandidabilità dei politici condannati. Abbiamo ospitato l’intervento dell’avvocato Mirco Consorte, coordinatore progetto Giustizia penale e diritti fondamentali presso IgiTo, sulla revisione della custodia cautelare.  Quindi è stata la volta dell‘avvocato Paolo Borgna, magistrato di Torino, sul voto agli avvocati nei consigli giudiziari. Successivamente abbiamo  pubblicato il contributo dell’avvocato penalista Alberto de Sanctis, Presidente della Camera Penale Vittorio Chiusano del Piemonte e della Valle d’Aosta, sulla separazione delle carriere dei magistrati. E sempre sulla separazione delle carriere pubblichiamo l’intervento del dott. Armando Spataro già Procuratore della Repubblica a Torino.

Referendum frutto di una spinta populista

Credo nell’istituto del referendum ma anche questa volta sento il dovere di impegnarmi per il “NO”. I cinque quesiti sono il frutto di una spinta di natura populista secondo cui “i cittadini hanno paura della giustizia”, “i pubblici ministeri hanno un potere sconfinato”, “la politica si conforma al loro volere”. E dunque “i magistrati vanno puniti”. Tali spot sono inaccettabili e servono a sostenere quesiti incomprensibili persino per persone di media cultura.

Il terzo quesito è forse il più pericoloso, comunque idoneo a scardinare l’assetto costituzionale della magistratura. Il suo testo – come ha già detto Nello Rossi – costituisce un vero e proprio rompicapo, complicato da decifrare anche per gli addetti ai lavori. Un quesito lungo due pagine con indicazione di norme contenute in cinque leggi diverse, peraltro da abrogare parzialmente. Difficile dire che ai cittadini si stia rivolgendo una domanda chiara cui poter rispondere con un “sì” o con un “no”. E’ una domanda elaborata all’evidenza più con l’occhio rivolto al messaggio politico che non alla sostanza del quesito.

Per il passaggio delle funzioni sono richiesti diversi requisiti

Le norme vigenti in tema di passaggio dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudice (e viceversa) prevedono, come è noto, vari requisiti. Il cambio della regione in cui si lavora, la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, la formulazione da parte del CSM, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni e limitano il passaggio ad un massimo di quattro volte nella carriera. La riforma Cartabia ancora in discussione ne prevede una sola. Esaminando i dati ufficiali relativi ai cambi di funzioni nel triennio giugno 2016–giugno 2019, si può rilevare che sono intervenuti solo 80 trasferimenti da p.m. a giudici (media annua di 26,66 unità su 2770 p.m. in servizio). E 41 da giudici a p.m. (con media annua di 13,66 unità su 6754 giudici in servizio).

Affermazioni offensive, infondate e incolte

Con il referendum si vuole escludere ogni possibilità di cambio di funzione sulla base di un’affermazione offensiva, di un’altra infondata e di un’ultima incolta.
Offensiva è quella secondo cui i giudici, per effetto della unicità della carriera, sarebbero portati ad accogliere sempre o quasi le tesi dei p.m. Una tesi che sembra  ignorare persino le cronache quotidiane che dimostrano il contrario.
E ignora pure che il valore tutelato dalla Costituzione (che non prevede la separazione delle carriere) e quello della necessità di un’omogenea “cultura giurisdizionale” che deve accomunare p.m. e giudici.

I due mestieri, infatti, pur differenti, hanno una caratteristica comune. Il p.m. condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e non è votato – “comunque e sempre” – alla formulazione di richieste di condanna. Ma deve (o dovrebbe) determinarsi a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente. Ciò anche a seguito delle indagini in favore dell’imputato che per legge è obbligato a compiere.

PM e giudici devono perseguire la verità

La necessità di un’unica cultura giurisdizionale, dunque, non è affatto un’affermazione retorica, ma sta ad indicare il dovere per il p.m. e per il giudice di compiere lo stesso percorso per l’affermazione della verità. Le valutazioni possono alla fine divergere, ma i canoni della valutazione delle prove devono unirli. Il p.m. dovrà valutarne la fondatezza solo in funzione della loro valenza nella fase del giudizio, senza appiattirsi su logiche di polizia. Mentre il giudice deve conoscere quali sono le problematiche ed i limiti propri dell’attività investigativa.

E’ privo di fondamento poi sostenere che l’attuale assetto violerebbe il principio del giusto processo che non ha nulla a che vedere con l’oggetto del quesito. Che, invece, si fonda sulla parità processuali delle parti. Con l’ulteriore precisazione che giustamente l’avvocato può anche sostenere la tesi dell’innocenza del suo assistito pur quando ne conosce la colpevolezza. Il ruolo delle parti, dunque, rimarrebbe in questo identico.

Indipendenza del PM e obbligatorietà dell’azione penale

Completamente incolta è poi la tesi secondo cui la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata. Ciò è totalmente privo di fondamento. E ignora le radicali differenze tra il nostro ordinamento – per fortuna caratterizzato da indipendenza del p.m. e obbligatorietà dell’azione penale – e quelli di altri Stati europei. Studiandoli seriamente ci si accorgerebbe che ovunque la carriera del p.m. sia separata da quella del giudice. Il p.m. stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo). Un rischio che non possiamo permetterci.

L’interscambio dei ruolo previsto quasi ovunque

Peraltro, la conoscenza e lo studio degli ordinamenti stranieri renderebbe anche chiaro che, sia pure con vari requisiti e grazie a provvedimenti amministrativi, l’interscambiabilità dei ruoli è possibile quasi dovunque (in Austria, in Belgio, in Svizzera, in Olanda, in Germania, in Francia etc.), tranne che in Spagna. Ciò a prescindere dallo status del p.m., spesso funzionario dipendente dall’Esecutivo. In Inghilterra e Galles, invece, non esiste il p.m nelle forme da noi conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia e può rappresentare la Polizia titolare dell’iniziativa penale. Il sistema statunitense, infine, si divide in giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, e giustizia statale ove vige il sistema elettorale. Ciononostante, esiste l’interscambiabilità tra i ruoli di giudici e p.m. che coinvolge anche l’avvocatura dalla quale, anzi, spesso provengono i p.m e i giudici.

In più la comunità internazionale, con la raccomandazione del 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale” (in cui si auspicano “passerelle tra funzioni di giudice e pm” per meglio garantire i cittadini) e con un parere del 2014 del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei, mostra di viaggiare proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni. Perché, da parte dei sostenitori del “Sì” si tace su questo importante, se non decisivo, elemento di conoscenza e valutazione?

La separazione delle funzioni è già prevista dalla Costituzione

Mi aspetto a questo punto una furba obiezione. “Ma il quesito referendario propone la separazione delle funzioni, non delle carriere!”. La risposta è facile, ribadendo che la separazione drastica delle funzioni già esiste ed è prevista in Costituzione, ma che elevare un muro per evitare qualsiasi passaggio dall’una all’altra equivarrebbe ad introdurre una vera e propria separazione delle carriere dei magistrati, che inevitabilmente porterebbe nel tempo a separare i concorsi per l’accesso in magistratura, il CSM, i percorsi di aggiornamento professionale ed altro, fino alla dipendenza del p.m. dall’Esecutivo ed alla sua involuzione culturale con progressivo isolamento e gerarchizzazione delle Procure. Insomma, danni per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia.

Il ruolo dei mass-media nell’accettazione delle sentenze

L’avv. Franco Coppi ha scritto sul Corriere della Sera, da penalista controcorrente. “..Vogliamo davvero che qualcuno passi la vita ad accusare?…Lo scambio di esperienze aiuta ad interpretare il singolo ruolo”. Ed il prof. Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte Costituzionale, già molti anni fa ebbe a dichiarare che “purtroppo i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il p.m. che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazione dell’accusa. Se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei p.m., perché colleghi ed amici”.

Ed anche, il prof. Giovanni Verde, già Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha scritto che un “divieto di passaggio dall’una all’altra funzione” sarebbe “di assai dubbia costituzionalità… La Costituzione ha destinato giudici e p.m. a vivere insieme…Se ritenessimo che non fu una scelta felice, dovremmo intervenire sulla Costituzione ed espungere i pubblici ministeri dall’ordine giudiziario”.

Tante ragioni per votare NO

Molto altro vi sarebbe da dire per rendere chiare a tutti le ragioni del “NO”. Ma voglio concludere ricordando che anche la tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia. Sembrava passato, nei rapporti tra potere politico e magistratura, il tempo delle riforme “rancorose”, ma così evidentemente non è. Le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in ogni parte d’Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale. E tocca alla magistratura stessa farsi carico con determinazione e senza ambiguità.

In proposito, è utile invitare tutti, gli avvocati innanzitutto, ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali, incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica. E’ certo che la Magistratura non può scegliere una chiusura corporativa ma i cittadini dovranno acquisire effettiva conoscenza sull’oggetto dei quesiti e votare secondo ragione. Se gli italiani voteranno per l’abrogazione delle previsioni citate, il sistema giustizia non migliorerà affatto e crolleranno ulteriormente la sua efficacia e la fiducia dei cittadini.

Armando Spataro

 

Armando Spataro

Armando Spataro è un ex magistrato e giurista italiano. Già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, ex procuratore della Repubblica aggiunto presso il tribunale di Milano, coordinatore...

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