A un mese dalle elezioni del 25 settembre scorso, ritorniamo sul problema dell’astensionismo. Più di 16 milioni di cittadini, infatti, non si sono recati alle urne. Il moto perpetuo della democrazia rappresentativa sembra scorrere senza essersene accorto.

Il Santo Stefano delle elezioni assomiglia a una foto di famiglia

Meloni sorride sorniona in primo piano, tra Salvini e Berlusconi che sgomitano per occupare il centro dell’immagine. La Russa e Fontana sono i cugini che si aggiungono all’ultimo, inginocchiandosi stile squadra di calcio. E poi ci sono Letta, Conte e Calenda che, reduci da una discussione a tavola, fanno di tutto per non posare vicini. Mattarella, con la compostezza di un veterano che le ha viste tutte, osserva la scena con sguardo pacato. Come in ogni ritratto di famiglia che si rispetti, c’è qualcuno di cui non rimane traccia: è il fotografo che, senza volto e senza nome, in questo post-elezioni è l’astensionismo.

Affluenza ai minimi storici

Il dato è senza precedenti: il “non voto” ha superato il 36%, la percentuale più alta della storia repubblicana. Il trend è storico e non è tutto italiano: da anni le democrazie occidentali sono interessate dal fenomeno in crescita dell’astensionismo di massa. Tra le cause individuate troviamo la scomparsa del voto di appartenenza e dei partiti dai territori, l’emergere di un elettorato volatile, il generale scollamento tra la politica e la popolazione. In ogni caso, dopo l’ennesima campagna elettorale passata a ribadire la retorica melliflua del “votare come unico strumento di partecipazione”, non sembra che partiti e istituzioni stiano lavorando per un’inversione di tendenza.

Nel dopo elezioni si parla poco di scarsa partecipazione

Nel post-elezioni di astensione si parla poco e male, così come di partecipazione. Nella retorica diffusa, troppo spesso pare che il ruolo della cittadinanza si esaurisca nel recarsi alle urne. Finalmente la popolazione può tirare un sospiro di sollievo, perché ormai ha compiuto il proprio dovere. Nei prossimi cinque anni il suo unico compito sarà indignarsi a giorni alterni. E con la stessa arrendevolezza consolatoria che accompagna ogni problema che non possiamo risolvere, ci avviamo alla XIX legislatura.

Geografia dell’astensione

Spiegare la scelta di astenersi in termini di mero disinteresse è semplicistico, oltre che implausibile. Cercando di tratteggiare una cartina dell’elettorato fantasma, vale la pena sottolineare qualche aspetto. Il primo ha a che fare con dei limiti strutturali: ci sono persone che vorrebbero votare, ma non possono farlo. Penso ai fuorisede, che sono quasi 5 milioni, o alle persone che, pur risiedendo in Italia da anni, non hanno la cittadinanza. Muovendoci sulla mappa dell’astensione, il dito si sposta verso sud. Sono i territori del Meridione a segnare il record del “non voto”, con percentuali che sfiorano il 50% in alcune regioni. E ancora le donne si astengono più degli uomini, con una percentuale del 41%.

Un milione e 300mila persone hanno scelto scheda bianca o nulla

A questi dati potremmo aggiungere il fatto che quasi 1,3 milioni di persone hanno votato scheda nulla o bianca (praticamente come tutti gli abitanti di Bologna e Ancona messi insieme). Generalizzando, si dice che la legenda della mappa del “non voto” sia da ricercare nel fatto che le categorie più povere e marginalizzate sono anche quelle più disilluse, che dalla politica si sentono meno rappresentate. L’affermazione ha sicuramente del vero. Il problema è che ci si ferma lì, mentre il salto logico dovrebbe essere quello di interrogarsi sul ruolo e la struttura di una democrazia che non è in grado di dialogare con gli ultimi.

Il contesto del voto

Votare è come rispondere a un test a crocette. Ci si può arrivare più o meno preparati, si può tirare a caso o scegliere con convinzione, si può lasciare la risposta in bianco o annotare a margine le proprie considerazioni, si può decidere di non presentarsi al test. Rimane il fatto che le opzioni sembrano tutte sbagliate e che forse, allora, è la domanda a essere formulata male. Le strade sono due. O  16 milioni di persone sono completamente imbecilli (come vorrebbe una certa retorica che sottolinea la superiorità morale di chi ha partecipato al rituale del voto). Oppure ci sono delle ragioni strutturali che non possiamo più ignorare.

Imbecillità o ragioni profonde?

Negli ultimi anni le campagne elettorali si sono risolte nella narrazione della crisi permanente. In un perenne stato di guerra, ai votanti viene chiesto di scegliere tra una serie di obiettivi e candidati preselezionati, basandosi su programmi che sembrano avere una funzione più decorativa che pratica. Tutto questo ben si adatta ai discorsi ricattatori del voto utile, del meno peggio e della necessità di arginare nemici a destra e sinistra. In fondo è una questione di numeri: col 51 vinci, col 49 perdi. In un’arena che assomiglia allo stato di natura hobbesiano, i partiti devono competere per massimizzare il numero di voti, promettendo sempre di più, urlando sempre di più.

Parlamento ancora garante della sovranità popolare?

Per condire questa insalata, che già di per sé dovrebbe porre delle questioni sul contesto in cui avviene la libera scelta dei rappresentanti politici, si aggiungono processi istituzionali che negli anni hanno portato al progressivo svuotamento del ruolo del Parlamento come garante della sovranità popolare. Penso al continuo ricorso ai governi tecnici, all’abuso sistemico dei decreti-legge e della questione di fiducia, alle liste bloccate o alle leggi elettorali orientate in senso maggioritario.

Guardare al sintomo è un vezzo tipicamente occidentale

Il sistema è sicuramente complesso e ognuna di queste affermazioni potrebbe essere legittimamente tacciata di qualunquismo. D’altra parte, è innegabile che la politica appaia sempre più lontana e indifferente alle istanze dal basso. Le responsabilità della crisi si ricercano in elettori ignoranti o politici incapaci. Per quanto reali, questi sono sintomi, non cause. Ma il gusto di guardare al sintomo e non allo squilibrio sistemico è un vezzo tipicamente occidentale, di cui è difficile liberarsi.

Quale democrazia e quale cittadinanza?

In questo contesto l’aumento esponenziale dell’astensionismo non è solo fisiologico, ma un imprescindibile punto di partenza per ripensare strutturalmente la democrazia. «La famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa sì che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni», per scomodare Giorgio Gaber.
Il punto è proprio qui, nella netta separazione tra politica e popolazione. La democrazia assume sempre più i connotati di un sistema paternalista di amministrazione tecnica e strumentale della cosa pubblica, in cui la partecipazione del demos è ridotta all’essere elettori e contribuenti, passivi ricevitori.

Bene, ma qual è l’alternativa?

«La presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo», scriveva Murray Bookchin.
È nelle esperienze più piccole che si nascondono i semi di quella che potrebbe essere una società ampiamente democratica, sostenibile e fondata sulla giustizia sociale. E no, non sto parlando della democrazia diretta pentastellata, che auspica la deliberazione con un click di individui isolati, senza spazi di confronto collettivo. Mi riferisco a una concezione della politica come paideia, come pratica di discussione continua tra individuo e comunità, in cui formare la partecipazione della cittadinanza.

Penso alle molteplici esperienze di democrazia diretta che hanno animato e animano il percorso della storia: dal confederalismo democratico in Rojava alle pratiche neomunicipaliste, passando per esperienze come l’autogoverno dei comuni italiani medievali o la Comune di Parigi. Chiaramente non si tratta di ricette universalistiche “pronte all’uso” e le alternative politiche non si costruiscono col copia e incolla. Penso però che ogni cambiamento possa cominciare da un piccolo sforzo utopistico. D’altronde, per proprietà commutativa, partecipazione è libertà.

Virginia Tallone

Virginia Tallone

Cuneese di origine e bolognese d'adozione, è laureata in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali. Iniziando come autodidatta nel mondo dell'informazione indipendente dal basso, frequenta la magistrale...

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