É da meno di trent’anni che Domenico Cacopardo, oggi splendido 88enne, all’epoca magistrato in servizio, ha dato inizio alla sua carriera di scrittore, prevalentemente di gialli molto avvincenti.

Protagonista principe di questi – ma ce ne sono altri – il magistrato Italo Agrò, il cui profilo umano e culturale è molto simile a quello del suo autore, compresa l’identità siciliana. Questo a dispetto sia del fatto che egli, figlio di un funzionario pubblico, è nato e vissuto in altre parti d’Italia, seguendo il padre nei vari trasferimenti, sia della madre, originaria del nord d’Italia. Gli ultimi due romanzi, Pater del 2022 e Pas de Sicile del 2023, sono entrambi pubblicati dall’editore pescarese Ianieri dopo una lunga scia di libri usciti soprattutto con Marsilio. Inoltre, l’ultimo, Pas de Sicile, appunto, non è di ambiente o, comunque, legato a personaggi siciliani, a parte l’alter ego di Domenico Cacopardo che nel romanzo diventa Palardo. Infine, sulla copertina vediamo che accanto al suo cognome paterno è stato aggiunto quello che, apprenderemo essere, il cognome materno.

Cacopardo, ci piacerebbe intanto conoscere i motivi, direi non casuali, di questa ultima scelta.

Le ragioni sono spiegate da pag. 211 in poi del libro. Qui, in ogni caso, le riprendo. La ‘mia’ seconda guerra mondiale è terminata il 17 agosto del 1943, quando americani e inglesi si riunirono a Messina, completando la conquista dell’isola. In quel momento, gli alleati, per me che avevo 7 anni, erano i nemici e i tedeschi ancora ‘il nostro amico germanico’. Sul finire del 1946, ripristinate le comunicazioni ferroviarie, con mia madre e mio padre partii in treno da Villa San Giovanni per raggiungere Piacenza dove vivevano due sorelle di mia madre. Così a 10 anni scoprii una realtà diversa e opposta e, soprattutto, conobbi due miei zii, uno comandante della Brigata Garibaldi e presidente del CNL di Piacenza, comunista secchiano, l’altro che venne da Torino, avvocato antifascista. Nel tempo ebbi occasione di vivere fianco a fianco dello zio partigiano che fu ospitato  dai miei genitori per alcuni mesi, forse sei, dopo la sua espulsione dal Pci (perché secchiano, cioè estremista). Un secondo letto fu posto nella mia stanza ed ebbi così la fortuna di conoscere la Storia della Resistenza e i valori della democrazia. Un suo fratello (un altro zio) era monsignore in Vaticano – dove abitava-, era molto vicino a Pio XII e aveva seguito l’Azione cattolica e coloro che dopo il 1945 erano stati i protagonisti della Repubblica. Favorevole, con Montini, all’«apertura a sinistra» era stato uno dei registi dell’avvicinamento tra Dc e Psi.

Mia madre era la 18^ figlia ed eredi dei Crovini, in vita siamo soltanto io e una cugina. Guardando in me stesso ho sentito il dovere morale di formulare un riconoscimento pubblico a queste persone e al ruolo che hanno avuto nella mia formazione. Del resto, a seguito di alcuni articoli pubblicati sulle pagine palermitane di Repubblica, dedicate al mio paese, dal quale proveniva la nota ‘nipote’ di Mubarak, Ruby Rubacuori, 2011, a cura di alcuni volenterosi fu realizzata una pira dei miei libri sul marciapiedi del municipio in presenza del vicesindaco e del comandante dei vigili urbani -festanti- e sono stato citato per diffamazione. Condannato da una giudice monocratica messinese, sulla cui personalità e sulle cui amicizie non intendo pronunciarmi, sono stato assolto in appello. Alla sentenza era presente il procuratore generale della Repubblica di Messina -venuto appositamente a Catania dove si celebrava il processo, per sostenere la pubblica accusa e rimettere le cose a posto tra diritto di cronaca e libertà di espressione- con una motivazione che elogiava ciò che avevo scritto. Pochi giorni prima, a riprova della pessima amministrazione e degli abusi edilizi, s’era staccata da un rilievo sull’autostrada una grande frana che bloccò la Messina-Catania per un decennio circa.

Ma c’è un legame tra questo romanzo e la scelta di aggiungerti il cognome materno proprio con “Pas de Sicile”?

Certo, c’è un legame e lo si può cogliere sin dalla copertina nella quale è riprodotto il mio ‘retroritratto’ opera del Maestro Gianluca Di Pasquale. Pas de Sicile intende segnalare la mia stanchezza per la ‘gnagnera’ siciliana di cui ogni settimana abbiamo conferme nel conformismo di un sicilianismo che fa un po’ il verso a Camilleri e un po’ a L’Ora. Sembra che un canone obbligato sia stato adottato inconsapevolmente da tanti colleghi e amici. Ci sono molti scrittori bravi, bravissimi, artisti veri e ammirabili. Ma c’è tanta paccottiglia, accomunata dalla scelta di una ‘maniera’ che adotta la retorica della sicilianità corrotta da Roma. Quando è vero che la mafia nasce in Sicilia e in Sicilia prospera e non c’è alibi romano che tenga. La colpa non è di Roma, ma di noi siciliani. Accanto a una minoranza di persone che rispettano la legge e amano la Repubblica, c’è un’alta minoranza agguerrita che costituisce il nerbo della criminalità organizzata, oggi più in giacca e cravatta che in velluto. E c’è la stragrande maggioranza indifferente e, quindi, oggettiva alleata del crimine.

Un noto mafioso della cosca di Barcellona Pozzo di Gotto, ai domiciliari, mi dedicò allora un post su Facebook «Ittamulu a mari chistu, ccu  na petra o coddu» (gettiamolo a mare questo con una pietra al collo). Il tizio era anche titolare di una società che forniva i servizi informatici al comune, affidatigli direttamente senza gara. Quando il maresciallo dei carabinieri ricevette la mia segnalazione del post su FB, mi chiamò e mi disse che si trattava di un bravo ragazzo che aveva scritto ciò che aveva scritto senza intenzioni e che comunque gli avrebbe tirato le orecchie. Non aggiungo altro. Solo che il sindaco, ormai al terzo mandato, era un giovane di belle speranze (anche mie) segretario della locale sezione dei DS. Diventato presidente del consiglio comunale, si alleò subito con l’imperante potere locale, divenendone sodale.

Non c’è neppure, in questo romanzo, il principale protagonista dei tuoi romanzi, il magistrato Italo Agrò. É andato ormai in pensione o si è temporaneamente preso qualche anno sabbatico?

Italo Agrò è da tempo in pensione, da quando una sua indagine su un ministro di Berlusconi, autore di malversazioni e mandante di un omicidio, era stata bloccata. In quel momento, Agrò in una conferenza stampa aveva reso noti i capi di accusa e le prove a carico del ministro e quindi si era dimesso. Ha fatto l’avvocato penalista a Roma, con la moglie Marta Aletei: daremo insieme l’addio ai nostri lettori in un romanzo che si intitola “Malucori” (cuore cattivo) che potrebbe uscire in questo 2024. Il condizionale deriva dal fatto che sto raccogliendo materiale su un delitto dei primi anni ’90 avvenuto in quel di Boretto (Reggio Emilia), località nota perché ospita il porto fluviale.

Veniamo a questo “Pas de Sicile”. Prima di parlarne lo vorrei un attimo accostare al tuo precedente romanzo “Pater”, anche quello uscito con l’editore pescarese Ianieri (e anche questa è una novità, se vogliamo). Entrambi i romanzi rivelano una storia criminale e hanno a che fare con amministrazioni comunali. È un terreno che sembri conoscere molto bene, o no?

Sono stato allontanato dalla Marsilio, dopo oltre 20 anni di collaborazione, da Luca De Michelis che ha ritenuto il mio Pater «non da Marsilio». Ianieri, con il quale collaborano Raffaella Catalano e suo marito Giacomo Cacciatore, mi ha accolto cordialmente. Alla mia età (88 ad aprile, campando) non si cerca un agente né un editore. Non dirò che i comuni sono la sentina dei vizi e della corruzione nazionale. Ho raccontato, in Pater una storia nota a chi ricorda e vuole ricordare. L’ho collocata in una comunità immaginaria per non colpire persone innocenti o comunque inconsapevoli. Quanto a Pas de Sicile, sono venuto a conoscenza di una vicenda analoga a quella narrata (con particolari di fantasia), e mi è venuto facile e naturale inserirci l’assessore calabro-leghista,  per il quale mi sono ispirato a realtà reali, sulla bocca di tutti o di tanti. Avendo per qualche tempo svolto la professione di avvocato da queste parti ne ho sentite molte, ma la più eclatante riguarda il timore diffuso in Lombardia tra i dipendenti pubblici. Nessuno ricorre al Tar o al giudice del lavoro per le soperchierie che subisce per il timore di ritorsioni. Non durerà.

Tu non sei mai stato segretario comunale come il tuo alter ego, protagonista di Pas de Sicile, ma hai grande esperienza, ad alti livelli, ad esempio governativi, con la P.A., che spesso si è rivelata collusa – non solo nei gialli – con la criminalità, con interessi di parte e malaffare. Quanto ciò è dovuto alle persone singole e quanto non invece al sistema stesso, tanto inceppato da assurdi  vincoli burocratici e quant’altro, da favorire la corruzione quale unico rimedio per rimuovere gli ostacoli che questi producono nel Paese? Ed è indubbio che, in queste condizioni, ad avere la meglio siano personaggi privi di scrupoli come il tuo Siro Sieroni, non certo gli imprenditori e lavoratori onesti…

Qui il discorso si fa più complesso. L’amministrazione pubblica in cui ho lavorato era fondamentalmente sana. La corruzione c’era ma era soprattutto politica, connessa alle esigenze di finanziamento dei partiti. Dopo Tangentopoli, secondo me la corruzione è scesa di livello, nel senso che spesso è stata la burocrazia protagonista e beneficiaria della stessa. Sono 15 anni che non lavoro più in area di governo. Il mio ultimo incarico è stato quello di capo dell’Ufficio legislativo del vicepresidente del consiglio D’Alema col secondo governo Prodi. Non mi sono fatto alcuna idea della situazione della pubblica amministrazione, allora. La mia sensazione, peraltro e da tempo, era che le regioni abbiano interpretato il ruolo loro conferito dalla Costituzione come funzione interdittiva. Nel senso che ogni decisione era subordinata a benefìci ufficiali negoziati a favore delle comunità interessate e da benefìci non ufficiali destinati alle combriccole politiche che si andavano volta a volta a costituire. E in questo senso, anche i comuni sono una buona palestra. Soprattutto al Nord dove il cittadino non è sospettoso: arriva il calabrese, il siciliano, il napoletano con tante disponibilità in tasca e compra o si associa. Il resto è noto. Aggiungo solo una considerazione che può apparire paradossale: la pubblica amministrazione va abolita. Come hanno fatto grandi aziende (vedi il caso Olivetti) vanno modificati i processi produttivi i prodotti e i protagonisti. Insomma, costituire “task-forces per singole missioni eliminando tutte le discrezionalità (dove c’è la parola discrezionalità là si trova il varco dei processi corruttivi) che ancora resistono anche nella fallimentare riforma degli appalti.

Diego Zandel

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