Siamo così giunti agli anni 1966/1967, alla vigilia del 1968, vero spartiacque tra il “prima e il “dopo”; anni nel corso dei quali il mondo è cambiato più velocemente che in tutto il dopoguerra.

I rivolgimenti sociali, così come quelli politici; il presentarsi sulla scena di nuovi “soggetti” quali i giovani e le donne; la contestazione radicale di una società “opulenta”, come definita dal filosofo tedesco Marcuse, sono tutti elementi di questa svolta che si può riassumere nel venir meno di tutte le convenzioni ed i dogmi, anche religiosi.

Come ricorda quegli anni e come ha affrontato questi temi L’Incontro?

I temi che sono venuti alla ribalta in quegli anni sono in effetti tantissimi ed è opportuno distinguere ciò che è avvenuto nel mondo, in breve, per poi esaminare ciò che è avvenuto in Italia.

I – Non si può non partire dalla guerra arabo – israeliana che si scatenò nel 1967.

L’Egitto e la Giordania, supportati da alcuni Paesi arabi, dopo il blocco del porto israeliano di Aqaba, ritenevano di poter ricacciare in mare gli israeliani, ma non facevano conto sulla fermezza degli abitanti e, ancor meno, sulla forza dell’esercito che, in pochissimi giorni, riuscì a sventare la minaccia e, addirittura, ad occupare il Sinai.

La sorprendente velocità della fine delle operazioni militari contribuì a denominare tale evento come “la guerra dei sei giorni”, risoltasi in una sconfitta bruciante per l’Egitto ed i suoi alleati (e per l’URSS, loro “sponsor” neppure tanto occulto).

La fulminea vittoria di Israele ha soprattutto avuto il significato di affermare una volta per tutte il suo diritto ad esistere quale Stato indipendente.

In un articolo de L’Incontro del giugno 1967 scrivevo che “Ora Israele deve vincere la Pace”, risolvendo numerosi problemi: “garantire la sua sicurezza, dopo tre guerre nel deserto, ma soprattutto riconciliarsi con il mondo arabo in un dialogo duraturo che sgombri per sempre le ragioni di una lunga contesa”.

Riaffermavo che “purtroppo chi ne fa le spese sono le folle miserabili dei Paesi arabi, le quali potranno trovare la via verso il progresso economico, l’emancipazione dal neo-colonialismo e la pace soltanto attraverso un ordinamento democratico, non già con follie nazionalistiche di una giunta militare o di un dittatore fanatico”.

L’amara realtà è che, nonostante siano passate decine di anni, non si è ancor oggi raggiunto un accordo duraturo che contemperi le giuste esigenze di pace e di convivenza di entrambi, i palestinesi da una parte e gli israeliani dall’altra.

II – Il secondo evento di una gravità eccezionale fu l’assassinio di Robert Kennedy, il candidato dei democratici alla presidenza degli Stati Uniti e fratello del precedente Presidente John Kennedy, a sua volta assassinato pochi anni prima.

Entrambi tali eventi tragici sono rimasti avvolti in un alone di mistero e di complotti mai del tutto chiariti. Resta il dato di fatto che una certa visione degli Stati Uniti, rappresentata dai fratelli Kennedy (e proprio, soprattutto, da Robert) e cioè di uno Stato liberale, attento ai diritti dei neri, nemico delle discriminazioni razziali, con una forte lotta alla povertà, è stata stroncata sul nascere, lasciando campo libero ai repubblicani ed alla destra più retriva.

III – Infine uno dei primi segnali di attenzione ai problemi della povertà e, più in generale, dei rapporti del Terzo Mondo con i Paesi capitalisti (Stati Uniti in testa) venne avanzato dal Vaticano e dal nuovo Papa Paolo VI, che promulgò l’Enciclica “Populorum Progressio”.

Anche se poi talune prese di posizione del nuovo Papa, specie in Italia, non potevano essere più censurabili, rimane il fatto che uno dei primi moniti sulla necessità di riconsiderare il rapporto con il c.d. Terzo Mondo giunse proprio dalla Chiesa.

Molti altri temi sarebbero degni di attenzione, ma ora dobbiamo concentrarci su ciò che avvenne in quegli anni in Italia.

Mi paiono interessanti quello della revisione del Concordato e quello dell’unità dei socialisti.

Occorre una breve premessa utile per ricordare che, purtroppo, nel 1947, l’approvazione degli artt. 7/8 della Costituzione repubblicana inserì in essa i Patti Lateranensi, che erano stati firmati nel 1929 da Mussolini e dal Cardinale Gasparri.

Tali accordi erano già superati nel 1947, in quanto contrastanti con la lettera e lo spirito della Costituzione.

Basti, a titolo di esempio, l’affermazione che il cattolicesimo “è la religione dello Stato”, come se lo Stato potesse avere una propria religione.

L’Incontro, nel n. 10 dell’ottobre 1967, aveva ancora una volta ribadito come “il richiamo del Concordato nella Costituzione fù un gravissimo errore perché segnò il predominio della Chiesa nella vita politica della giovane Repubblica e la trasformazione del Partito Democratico Cristiano in un regime di governo”.

Ora, finalmente, molti anni dopo, si verificavano i primi tentativi di una revisione consensuale del Concordato, che venne proposta dall’on. Lelio Basso del Psiup.

Venne richiesta la revisione, anziché l’abolizione del Concordato perché già si sapeva che tale posizione radicale non sarebbe mai stata accettata dal Vaticano.

Si richiese peraltro un’ampia ed articolata revisione, che evitasse il pericolo di un “aggiustamento” più di facciata che di sostanza, 

La richiesta dell’On. Basso prevedeva una riforma dell’art. 1 del Concordato, che stabilisce che la religione cattolica sia la religione ufficiale dello Stato italiano; così come dell’art. 36 che pone la dottrina cattolica a fondamento dell’istruzione pubblica, in contrasto con il dettato costituzionale secondo cui l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.

Così come l’art. 34 del Concordato, che riconosce al matrimonio religioso gli effetti civili, risulta in contrasto con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini.

Altri articoli contestati dal progetto di riforma erano quello sulla dichiarazione del carattere sacro della Città di Roma; il riconoscimento dei titoli nobiliari vaticani; i privilegi per gli ecclesiastici (come l’esenzione dal servizio militare), mentre ai laici si negava l’obiezione di coscienza.

Come si può immaginare la proposta non raggiunse la maggioranza dei voti in Parlamento, che deliberò invece una mozione che era quanto di più generico si potesse pensare, senza alcuna garanzia di tempi e di metodi.

Il testo approvato si limitava ad affermare “il principio che il Concordato va riveduto in alcune sue parti e impegni il governo ad affrontare la revisione d’accordo con il Vaticano”, ma “la mozione non specificava quali norme siano da rivedere, né quando lo Stato avrebbe preso l’iniziativa di tale procedura”, come riportato ne L’Incontro dell’ottobre 1967.

Purtroppo sarebbero dovuti trascorrere ancora molti anni fino a quando, nel 1984, sotto la guida del governo Craxi, si giungesse ad una revisione del Concordato, nelle parti incompatibili con il nuovo assetto sociale.

Passiamo ora al tema della riunificazione dei socialisti sotto un’unica bandiera.

Il titolo de L’Incontro dell’ottobre 1966 era di chiaro assenso per quanto era avvenuto:

“A diciannove anni dalla scissione il Psi e il Psdi si sono unificati”, auspicando che “un socialismo più forte per i lavoratori e il Paese” fosse di per sé un fatto positivo.

E’ proprio vero: la riunificazione aveva scatenato grandi entusiasmi, anche popolari, sia perché poneva fine ad una dolorosa scissione (una delle tante della sinistra!), sia perché dava forza anche numerica in Parlamento ai socialisti.

L’Incontro dell’ottobre 1966 riferiva: “Il nuovo Partito (che conterà 95 deputati, cioè 63 del PSI e 32 del PSDI, e 46 senatori, cioè 32 del PSI e 14 del PSDI) potrà riprendere la forza che aveva negli anni anteriori alla scissione di palazzo Barberini e creare una vera e propria alternativa alla D.C. nel governo del Paese, come un Partito di ricambio analogo a quanto si verifica in Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Olanda, Paesi nordici”.

L’Incontro riportava inoltre:  “Il 37° Congresso Straordinario del Partito Socialista Italiano e il 15° Congresso nazionale del Partito Socialista Democratico Italiano, tenutisi contemporaneamente a Roma negli ultimi giorni di ottobre, hanno sancito l’unificazione dei due Partiti e degli altri gruppi di socialisti, ratificato la carta ideologica e politica, lo statuto e le norme transitorie predisposte dal Comitato paritetico e dato vita al nuovo Partito Socialista Unificato, attraverso l’Assemblea Costituente svoltasi in un’atmosfera solenne e festosa, con l’intervento di molte migliaia di iscritto giunti da ogni parte d’Italia.

Questa cerimonia, caratterizzata da un entusiasmo popolare senza precedenti, da una grande commozione, dalla consapevolezza di un evento storico, ha posto fine alla scissione di Palazzo Barberini nel gennaio 1957. Allora l’ala riformista del Paritto Socialista Italiano di Unità Proletaria si era staccata formando il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI) sotto la guida di Saragat. L’ala massimalista, divenuta Partito Socialista Italiano (PSI), sotto la guida di Nenni, aveva condotto sfortunate battaglie politiche a fianco dei comunisti”.

Le conclusioni de L’Incontro erano chiarissime: “Il Paese non vuole un’unificazione meramente organizzativa, cioè la somma aritmetica delle forze militanti nei due schieramenti, bensì una formazione nuova, la nuova sinistra italiana, laica e progressista, secondo le più aggiornate concezioni sociologiche dell’Occidente, eredi di tradizioni di libertà e di cultura, moderno campione di battaglie democratiche contro il sistema capitalista.

Il nuovo Partito incontrerà certamente molte difficoltà sulla sua strada, come dimostra, tanto per fare un esempio, il contrasto fra D.C. e gli altri Partiti sul divorzio, il quale non rientra nei patti di governo, ma non può essere sottratto alla libera iniziativa parlamentare”.

Purtroppo il futuro del Partito Socialista non si sarebbe rivelato così roseo ed anzi avrebbe avuto una fine alquanto ingloriosa.

Alessandro Re

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