Dopo la prima puntata con il rapporto su giornalismo e avvocatura e la seconda con le prime collaborazioni del fondatore Bruno Segre, la storia arriva al fatidico 1949

La fine della collaborazione con queste storiche testate che abbiamo ricordato è stato di stimolo per intraprendere quella che poi diverrà una importante professione: quella di avvocato. Quali sono state le ragioni di questa scelta?

“Da un lato mi resi conto del fatto che non potevo continuare a vivere contando su collaborazioni precarie, facendo solo il cronista; dall’altro avevo inculcato in me il culto della legalità.

In famiglia avevo già avuto il nonno e lo zio che erano stati avvocati.

Inoltre premeva in me l’esigenza di legalità e di giustizia che per me e per chi aveva subito un ventennio di violazione di tutte le norme, anche quelle di semplice civiltà, era divenuta insopprimibile.

Vi era anche una componente personale, l’insofferenza per il lavoro alle dipendenze altrui, mentre l’avvocatura rappresentava per me il massimo della indipendenza.

Imparai poi che era anche una professione che ti coinvolgeva in scelte difficili, per me e per i clienti, con una grande responsabilità verso che ti affida la propria vita, i propri cari e i propri beni”.

Quindi quando ha iniziato a fare la pratica e quando hai sostenuto l’esame di abilitazione?

In realtà avevo già iniziato a fare pratica negli anni 40/41, subito dopo la laurea, presso lo Studio dell’avvocato Salza, valente penalista torinese, sebbene in incognito in quanto agli ebrei non più consentita dalle leggi razziali l’iscrizione all’albo.

Poi, dopo l’interruzione della prigionia e della guerra, nel 1946 mi rimisi a studiare per l’esame da procuratore legale che poi superai nel 1947.

Mentre io riducevo la mia attività nel giornalismo, vi era chi, viceversa, proprio con la bocciatura all’esame, cambiò vita e divenne un grandissimo giornalista.

Mi riferisco a Giovanni Giovannini, che era stato mio compagno di scuola al liceo e che era al mio fianco durante le prove scritte dell’esame.

Come avviene spesso nella vita, la bocciatura fu la sua fortuna in un’altra professione, proprio nel giornalismo: egli divenne infatti un inviato speciale de La Stampa, poi entrò nel Consiglio di amministrazione di tale giornale e, infine, fu Presidente della FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali).

Gli inizi della professione legale, anche dal punto di vista economico, furono assai duri, e quindi aprii lo studio, da solo, negli stessi locali ove mio padre lavorava quale agente di assicurazioni, in piazza Solferino numero 3.

Proprio nell’ufficio che era di mio padre, iniziai quindi un’avventura professionale, quale avvocato, che sarebbe durata per oltre 70 anni!

Anche a seguito del decesso di mio padre, nel febbraio del 1949, mi trasferii dapprima in via Santa Maria e poi in via Consolata, ove il mio studio legale e la sede dell’Incontro sarebbero rimasti per molti anni.

Gli inizi della professione furono duri, come ho detto, sia per la crisi economica del paese, sia perché non potevo contare su una clientela.

Alcuni clienti mi vennero in realtà affidati dal Collega penalista avvocato De Marchi, il quale aveva potuto apprezzare in un processo la mia giovanile irruenza.

Sempre nel 1949 ottenni il primo inaspettato successo, diventando famoso sia in Italia sia all’estero.

Difesi, infatti, per la prima volta in Italia, davanti al Tribunale Militare, un obiettore di coscienza, Pietro Pinna”.

Il 1949 fu per lei l’anno di svolta, in entrambe le sue professioni, di giornalista ed avvocato.

Proseguiamo con quest’ultima, anche in considerazione del fatto che proprio alcuni temi affrontati agli esordi della sua professione diverranno anche uno dei capisaldi de l’Incontro.

Mi riferisco al processo contro Pinna: me ne vuole parlare?

“In effetti proprio nel 1949 e precisamente il 31 agosto affrontai il primo processo penale, innanzi al Tribunale Militare di Torino, che mi diede immediata notorietà, grazie all’interesse che suscitò in Italia e all’estero.

Si trattava infatti della difesa, per la prima volta in Italia, di un obiettore, Pietro Pinna, che si rifiutò di adempiere al servizio militare invocando l’obiezione di coscienza.

Occorre soffermarsi un po’ sia su Pinna, sia sul clima dell’epoca.

L’obiezione di coscienza era ritenuta allora un principio di per sé negativo, anche dalla stessa Chiesa cattolica, che solo anni dopo cambiò opinione.

Anche i militari erano preoccupati, non tanto per profili ideologici, quanto per il rischio che il diffondersi dell’obiezione di coscienza potesse rappresentare un depauperamento delle Forze Armate, considerato il rischio che nessuno avrebbe più voluto fare il servizio militare”.

Chi era Pinna?

“Pinna era un giovane ragioniere impiegato presso una banca a Ferrara che, dopo la guerra, rimase molto colpito da un discorso sulla nonviolenza e sull’antimilitarismo tenuto dal professor Aldo Capitini, famoso filosofo antifascista, fondatore della Rivista “Azione nonviolenta”, che si ispirava all’insegnamento di Gandhi, assassinato proprio nel 1948.

Quando venne chiamato a prestare il servizio militare a Lecce, Pinna si rifiutò di effettuare l’addestramento, sostenendo che non avrebbe mai potuto impugnare le armi.

A dimostrazione del carattere non fraudolento del suo proposito, Pinna disse che avrebbe volentieri partecipato ad attività alternative al servizio militare, anche assai più rischiose, quale lo sminamento dei numerosi campi minati ancora esistenti in Italia.

La risposta dell’Autorità Militare fu dapprima il suo trasferimento al CAR di Casale Monferrato e poi, visto il persistere di Pinna nel rifiuto, al carcere militare di Torino”.

E come ha conosciuto Pinna?

“In realtà fu il professor Capitini, che avevo conosciuto a Roma nel 1948 in occasione di un convegno sulla nonviolenza, a contattarmi chiedendomi di assistere questo giovane.

Mi recai quindi nel carcere militare di Torino, ove ebbi un primo colloquio con Pinna, che mi ribadì le sue più ferme intenzioni, non basate su presupposti religiosi, ma su motivazioni etiche e filosofiche, frutto dell’influenza su di lui di Capitini.

Mi parve subito sincero e determinato e non ebbi più dubbi nell’assumere la sua difesa, nonostante le difficoltà ed il rischio di una condanna severa per Pinna.

Allora, infatti, le pene per il reato di “disobbedienza continuata”, come formulato dall’accusa, erano severe, in considerazione del fatto che ogni rifiuto, anche minimo e reiterato più volte, ad un qualsiasi ordine di un superiore veniva considerato a sé, non quale conseguenza di un unico rifiuto, a monte, dello stesso servizio militare, ma quale serie di singoli reati”.

Il processo come si svolse e con quale esito?

“Il processo, che si tenne il 31 agosto del 1949, avanti al Tribunale Militare di Torino, ebbe un richiamo mediatico notevole, grazie alla rete di solidarietà che si era estesa in tutta Europa e nel mondo.

Intervennero quindi numerosi giornalisti, fotografi e semplici cittadini, perché era il primo processo in Italia ad un obiettore di coscienza.

Io chiamai a testimoniare sul valore morale dell’obiezione il professor Capitini, il pacifista Marcucci e l’onorevole Calosso, noto antifascista e “speaker” da Radio Londra durante la guerra.

Nonostante ciò e una mia lunga ed argomentata arringa, al termine della quale chiesi l’assoluzione con formula piena, il Pinna venne condannato, seppur ad una pena alquanto lieve: 10 mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, che scontentò tutti: il Pm perché riteneva la condanna troppo mite e la difesa che presentò subito appello.

Ritornato in libertà, il Pinna venne convocato nuovamente al CAR di Avellino, ove rinnovò il rifiuto del servizio militare.

Ne conseguì un secondo processo dinnanzi al Tribunale Militare di Napoli, ove il 29 settembre 1949 venne condannato a 8 mesi di reclusione, che a questo punto dovette scontare.

Nel frattempo sopraggiunse l’amnistia che lo fece scarcerare.

Fu tosto convocato al CAR di Bari, ma qui la vicenda di Pinna si concluse, in realtà, non tanto sotto un profilo giuridico, quanto grazie ad un “escamotage” utilizzato dalle Forze Armate, desiderose di non aver più a che fare con Pinna e per evitare la pubblicità del suo gesto, riformandolo per una inesistente nevrosi cardiaca”.

Da quel momento in poi il riconoscimento dell’obiezione di coscienza divenne una delle battaglie sue e dell’Incontro?

“In effetti il processo Pinna aveva contribuito a squarciare il velo su una situazione che diveniva sempre più intollerabile, posto che ricorrevano all’obiezione di coscienza anche i Testimoni di Geova, gli anarchici, i pentecostali e, nonostante la contrarietà della Chiesa, alcuni cattolici.

La battaglia fu comunque lunga e complessa e solo nel 1972 venne approvata la legge Marcora, dal nome del ministro dell’epoca, che, pur non ritenendo più l’obiezione di coscienza un reato, non la riconosceva come un diritto vero e proprio, essendo rimessa ogni valutazione ad una Commissione “ad hoc” che doveva vagliare la buona fede dell’obiettore.

Solo con l’abolizione del servizio militare obbligatorio, nel 2005, la questione poté considerarsi definita”.

Alessandro Re

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